lunedì 2 ottobre 2017

“Cristianesimo della fede e cristianesimo della ragione” di Pier Giuseppe Milanesi*

“Cristianesimo della fede, cristianesimo della ragione” potrebbe costituire titolo per una ricerca di vasta portata, poiché questi due momenti, fede e ragione, nella progressione millenaria della storia del cristianesimo sono inscindibili, fin dalle sue origini dove vediamo Pietro e Giovanni – la fede e la ragione – coesistere all’interno dello stesso corpo evangelico.
Nella circostanza di questo nostro incontro, una riflessione, di portata più limitata, sul rapporto tra fede e ragione è stata sollecitata da alcune perplessità avanzate dagli studiosi proprio sulla figura di Boezio e in particolare sulla sua “Consolazione della filosofia”. Ci si domanda perché mai Boezio, condannato a morte da una ingiusta sentenza, non avesse cercato conforto nella fede, preferendo affidarsi alla filosofia, attribuendo a quest’ultima (e perciò alla ragione) la funzione di illuminare il cammino dell’uomo nei momenti più bui. Conoscendo la formazione e la personalità di Boezio, possiamo però giustificare le ragioni di questa scelta!  Molto probabilmente egli riteneva che i suoi contemporanei avessero molto più bisogno della ragione che non della fede. Anzi di fede, forse, ne avevano fin troppa, tale da sconfinare ampiamente nella superstizione, al punto che, come egli racconta all’inizio del libro, trovarono ampio credito, contro di lui, le accuse di complottismo, stregoneria e maleficio. E a questo punto non possiamo non concordare sul fatto che contro la superstizione solo la ragione può essere efficace, e perciò proprio la ragione è in grado di fornire un servizio indispensabile alla conservazione della purezza della fede. Questo sembra il messaggio che – credo -  Boezio abbia voluto comunicare.
Fede e ragione sono entrambi principi di autorità. In genere la ragione prevede metodi di ricerca basati su dati e principi dimostrabili e verificabili, mentre la fede comporta un atteggiamento verso alcune affermazioni che non sono, almeno al momento, dimostrabili e perciò richiede un impegno del soggetto, un atto di adesione e di partecipazione volontaria.
Se guardiamo al mondo classico possiamo affermare che il problema del rapporto tra fede e ragione non si sia mai chiaramente posto. La religione greca era costituita soprattutto da racconti mitologici rispetto ai quali i filosofi erano piuttosto indifferenti.  Anche il Dio di cui parlano i filosofi – ad esempio Platone, Aristotele o gli Stoici - ha ben poche caratteristiche religiose: esso è certamente un principio di intelligenza posto a governo del cosmo, ma non intrattiene un rapporto personale con l’umanità, non è contattabile e non si rivela.
Lo scenario cambia con l’avvento della teologia cristiana, incentrata sul mistero della Rivelazione, per cui l’uomo diventa recettore, depositario e testimone di nuove verità su Dio, su se stesso e sul suo destino: verità che egli accetta e percepisce come tali per fede e cioè non contestabili, ma che, come tali, in forza di questo assenso interiore – la definizione di Agostino della fede è nihil aliud quam cum assensione cogitare – in forza di questo trasporto istintivo che la fede intrattiene con la verità - non possono che esercitare anche un potente stimolo sulla ragione stessa. La fede in qualche modo fa da traino alla ragione ponendo quesiti di fronte al quale il filosofo non riesce a rimanere indifferente. Già in questo senso noi possiamo intuire come fede e ragione subiscano momenti di reciproca attrazione; non solo come attrazione esercitata dai misteri della fede sulla ragione, ma probabilmente anche in senso contrario, per cui la ragione contribuisce a costruire i presupposti affinché la fede si depositi nell’animo delle persone. Un percorso forse tortuoso, poco notato, ma che vale la pena di provare ad esplorare.
La fonte della fede cristiana è, come è noto, la Rivelazione. Però la Rivelazione, come scriveva Karl Barth, non fabbrica automaticamente credenti. In qualche modo la fede deve essere già presupposta affinché il seme della Rivelazione possa attecchire. Da dove viene allora questa disposizione d’animo? Per quali processi questa cosa che chiamiamo “fede” finisce con depositarsi sul fondo dell’anima classica creando così il presupposto per l’accoglienza del messaggio divino – e cioè di quella fusione tra cultura classica e cristiana su cui si reggerà l’Occidente? 
 Cercherò in questo breve intervento di tracciare un ipotetico percorso dello spirito che potrebbe motivare quel giudizio espresso da Giustino Martire o da Clemente Alessandrino secondo cui la filosofia sarebbe servita ai pagani per condurli a Cristo, esattamente come la Legge era servita agli ebrei allo stesso scopo. Quindi anche la ragione sarebbe in qualche modo implicata in questo processo, diciamo così, di “conversione”. Ovviamente non può essere ritenuta la sola causa, ma in qualche modo essa potrebbe avere recitato una parte importante nel preparare il terreno su cui è germogliato il seme cristiano. Ma in che modo?
Come ho appena detto, quando si cerca di comprendere il processo di integrazione tra cultura classica e cultura cristiana, non dobbiamo trascurare di considerare il fascino che il mistero cristiano può avere esercitato su una cultura, come quella greca, da sempre affascinata dai paradossi! I filosofi greci, giocando per così dire con la ragione, si erano misurati con paradossi che ancora oggi vengono citati: il paradosso detto “della freccia ferma” oppure quello detto “di Achille e la tartaruga”. In che cosa consistevano? Attraverso il solo ragionamento era possibile dimostrare che una freccia scagliata con l’arco non sarebbe riuscita a procedere nello spazio; parimenti con lo stesso ragionamento si dimostrava che Achille piè veloce, inseguendo una tartaruga, non sarebbe mai riuscito a raggiungerla. Questi paradossi venivano dalla scuola di Elea – la scuola fondata da Parmenide -  ma oltre a questi abbiamo il ventaglio dei paradossi proposti da quella cerchia di filosofi ateniesi detti “sofisti” i quali erano particolarmente abili a produrre ragionamenti che conducevano a conclusioni paradossali.
Se la ragione nell’età classica amava misurarsi col paradosso quasi per sfidare se stessa, ricercando i propri confini, possiamo a questo punto anche capire il fascino esercitato dai paradossi della fede proposti dal cristianesimo. Paradossi cristiani che possiamo ad esempio rintracciare, non solo nei grandi misteri, ma anche già nelle parabole, ad esempio la parabola degli operai che vengono reclutati per lavorare nel podere del Signore dove l’operaio che viene reclutato per ultimo e che ha lavorato un’ora sola riceve lo stesso salario di chi ha lavorato tutta la giornata, sollevando la protesta di quest’ultimo.
Se analizziamo più profondamente il meccanismo logico che agisce nella parabola, noi vediamo, con opportuni adeguamenti, che esso non è poi così diverso da quello usato per generare i paradossi della “freccia ferma” o di Achille che non raggiunge mai la tartaruga. Senza scendere nei dettagli diremo in sintesi che tutti questi ragionamenti giocavano su un conflitto che si genera quando si tenta di rendere commensurabile il finito con l’infinito, ponendo a contatto queste due dimensioni.  Perché la freccia rimane ferma? Detto in parole molto povere: la freccia, nella misura in cui parte da un punto determinato dello spazio-tempo, rimane prigioniera della struttura finita del punto x di partenza perché non riesce ad uscire dal punto per raggiungere il punto successivo. Per passare da un punto ad un altro dovrebbe attraversare uno spazio infinito o indeterminato e ciò non le è possibile perché non esiste un passaggio che mette in in comunicazione le due dimensioni – il finito e l’infinito.
Anche nel paradosso evangelico un operaio può lavorare un’ora, due ore, tre ore ecc. ma ciò è indifferente perché, anche in questo caso, non c’è modo di misurare il rapporto tra il finito e l’infinito – tra il tempo determinato e l’eternità. Le due dimensioni spaziano su orizzonti diversi e seguono logiche diverse non sovrapponibili. Però a differenza della freccia che rimane prigioniera in un punto dello spazio/tempo, la parabola sembra dire che l’operaio infine raggiungerà l’infinito o l’eternità (ossia quella retribuzione uguale per tutti). E questo fatto che l’infinito possa essere comunque raggiunto partendo da qualsiasi punto finito lascia intravvedere un nuovo orizzonte di apertura della ragione.
Quindi è un po’ un errore pensare che la ragione sia “razionale” e la fede “irrazionale”. I paradossi dimostrano che la ragione è infine, nei suoi bordi, altrettanto irrazionale quanto la fede. Ciò che voglio dire è che, nonostante quanto afferma San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, sulla l’irrazionalità della fede cristiana – Paolo la chiama la “follia” -  queste “schegge di follia” crescevano già a margine del logos greco nel momento in cui la ragione cercava di premere contro i propri confini cercando di rendere commensurabili, ossia comunicabili, dimensioni inconciliabili: il finito con l’infinito, il discreto con il continuo, il semplice e il complesso, il determinato e l’indeterminato, la linea retta e la curva ecc. Quanti lati deve a avere un poligono per diventare un cerchio? Infiniti! Ma il punto di contatto con questa infinità non è rappresentabile, se non con la scoperta del calcolo infinitesimale molti e molti secoli dopo.
Quando entrambe le dimensioni – quando il finito e l’infinito -  come nel caso della freccia ferma, venivano spinte ad interagire secondo i principi della logica, si generava il paradosso.  Come muta questo scenario nel successivo processo cristiano? Stiamo ovviamente cercando di schematizzare un percorso dello spirito che in realtà è stato molto più complesso e variegato. Ma schematizzando diremo semplicemente che ciò che si presentava come un legame impossibile per la ragione diventa possibile nel mondo della fede, e cioè affidandosi ad un’altra risorsa in grado di stabilire un rapporto di natura diversa con la verità.
Con l’infinito dei filosofi, non si dialoga più con la ragione, bensì con la fede. Il paradosso viene dunque trasferito all’interno di una nuova dimensione in grado di far comunicare l’incomunicabile. Questa nuova dimensione è una dimensione interna al soggetto, uno spazio che si apre dentro di noi: è l’interiorità della persona dove ora giace il sentimento interno della presenza dell’infinito come sentimento della presenza di Dio. Non è più il concetto di una infinità non raggiungibile dalla ragione, ma ora è una presenza che si è resa tangibile dentro di noi e che si lega a noi nel sentimento puro della fede. E qui fanno testo le parole di Agostino “E io ti cercavo là, mentre tu stavi già dentro di me!”    
 Nel percorso spirituale che abbiamo tracciato sembra dunque che il momento della fede, vale a dire il momento in cui l’uomo trasferisce i paradossi dell’infinito nell’interiorità soggettiva dove ritrova Dio nella forma di un sentimento, rappresenti quasi una porta che si sia aperta sotto la spinta di una ragione che premeva alla ricerca di una risoluzione dei suoi conflitti. Questa pressione infine avrebbe generato una forma di coscienza completamente nuova, una coscienza che è in grado di portare dentro di sé la presenza di Dio, conservandola anche nei secoli futuri.
La figura emblematica - il modello, l’icona -  dove questi due momenti, il finito e l’infinito, trovano una perfetta sintesi è rappresentata dalla figura del Cristo – Cristo come persona vivente, ossia come soggetto -  che rappresenta il momento più alto di una sintesi tra il concetto del finito, per cui Cristo è uomo (quindi condannato a morire, perché solo nella morte si manifesta la finitezza dell’umano) e il concetto dell’infinito rappresentato dalla sua contemporanea essenza semplice e divina. E’ dunque la figura di Cristo a rappresentare il nuovo punto di incontro di un antico paradosso.
E qui nasce per così dire il cristianesimo della ragione, per cui vediamo che la fede – che secondo la nostra descrizione quasi nasceva dalla pressione della ragione volta a superare i suoi confini – fa a sua volta da traino alla ragione che ora dirige tutti i suoi sforzi a rappresentare e a spiegare gli oggetti della fede: le caratteristiche essenziali di Dio, nella sua semplicità e bontà in rapporto alla complessità e al male presente nel mondo, e il mistero della Trinità che abbraccia anche il paradosso della duplice natura di Cristo.  I vari tentativi di affrontare questo paradosso e di semplificare i termini in gioco hanno dato poi origine a quella serie di eresie che caratterizzano i primi secoli della civiltà cristiana. Però dobbiamo notare anche un particolare importante e cioè che queste eresie si sviluppano in ambienti culturali periferici dove non esisteva una tradizione e la disponibilità di strumenti logici e filosofici sufficientemente elaborati per misurarsi con un problema così complesso; e quindi si tendeva alla semplificazione. Viceversa noi riscontriamo in pensatori come Agostino, e soprattutto in Boezio, discepolo della Scuola di Atene, che aveva studiato a fondo Platone, i matematici, la teoria della musica e la logica aristotelica, anche una superiore capacità di produrre argomenti e soluzioni razionali coerenti con l’ortodossia.
A partire da Boezio, e almeno fino alle soglie del XII secolo, fede e ragione riescono a stabilire un legame molto solido. Teologia e filosofia si confondono. Poi, con i francescani, nel tardo Medioevo – e in particolare con Giovanni Duns Scoto e Guglielmo da Ockham, le due sfere incominciarono via via a separarsi. Alla fede e alla ragione vengono riassegnati ambiti distinti e fonti diverse di alimentazione per cui non ritroveremo più quel forte compatibilismo riscontrabile in Boezio o in Tommaso D’Aquino.  
Ciò stimolerà, nei secoli successivi e fino ad oggi la ricerca di nuovi sistemi di interazione, con vicende alterne, dove vedremo fede e ragione a volte negarsi a vicenda, a volte accentuare i loro ambiti di incompatibilità, ma anche ritrovare una sintesi su piani assolutamente nuovi. In generale, al di là delle alterne vicende generate dalla interazione tra le due sfere, noi vediamo prevalere una tendenza ad attribuire alla fede e alla ragione distinte radici e funzioni, però entrambe indispensabili e complementari per la costruzione del nostro universo cognitivo e morale.
In genere possiamo dire che tra le due posizioni estreme - quella del credo quia absurdum dei fideisti e quella dei positivisti che sostengono viceversa che tutto ciò che non corrisponde agli standard di coerenza logica e di verificabilità, debba essere considerato “privo di senso” - si va alla ricerca di una nuova visione del concetto di “senso” che comprenda una sfera motivazionale più vasta, caratterizzata anche da norme, principi, credenze che, pur non costituendo materiale soggetto alle regole di una analisi razionale - pur non fornendo nessuna informazione sul mondo, pur sfuggendo alla dicotomia vero/falso -  rivestono un significato strutturale, in quanto procurano al credente motivazioni morali e comportamentali, nonché una solida piattaforma formativa per la costruzione di una coscienza e un indirizzo per la vita. 


* Dagli atti del Convegno "Severino Boezio e Flavio Cassiodoro: eredità classica e cultura cristiana" svoltosi con grande successo di pubblico a  Pavia lo scorso 29 settembre 2017.

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