Nella circostanza di questo nostro
incontro, una riflessione, di portata più limitata, sul rapporto tra fede e
ragione è stata sollecitata da alcune perplessità avanzate dagli studiosi
proprio sulla figura di Boezio e in particolare sulla sua “Consolazione della
filosofia”. Ci si domanda perché mai Boezio, condannato a morte da una ingiusta
sentenza, non avesse cercato conforto nella fede, preferendo affidarsi alla
filosofia, attribuendo a quest’ultima (e perciò alla ragione) la funzione di
illuminare il cammino dell’uomo nei momenti più bui. Conoscendo la formazione e
la personalità di Boezio, possiamo però giustificare le ragioni di questa scelta! Molto probabilmente egli riteneva che i suoi
contemporanei avessero molto più bisogno della ragione che non della fede. Anzi
di fede, forse, ne avevano fin troppa, tale da sconfinare ampiamente nella
superstizione, al punto che, come egli racconta all’inizio del libro, trovarono
ampio credito, contro di lui, le accuse di complottismo, stregoneria e
maleficio. E a questo punto non possiamo non concordare sul fatto che contro la
superstizione solo la ragione può essere efficace, e perciò proprio la ragione
è in grado di fornire un servizio indispensabile alla conservazione della
purezza della fede. Questo sembra il messaggio che – credo - Boezio abbia voluto comunicare.
Fede e ragione sono entrambi
principi di autorità. In genere la ragione prevede metodi di ricerca basati su
dati e principi dimostrabili e verificabili, mentre la fede comporta un
atteggiamento verso alcune affermazioni che non sono, almeno al momento,
dimostrabili e perciò richiede un impegno del soggetto, un atto di adesione e
di partecipazione volontaria.
Se guardiamo al mondo classico
possiamo affermare che il problema del rapporto tra fede e ragione non si sia
mai chiaramente posto. La religione greca era costituita soprattutto da
racconti mitologici rispetto ai quali i filosofi erano piuttosto
indifferenti. Anche il Dio di cui
parlano i filosofi – ad esempio Platone, Aristotele o gli Stoici - ha ben poche
caratteristiche religiose: esso è certamente un principio di intelligenza posto
a governo del cosmo, ma non intrattiene un rapporto personale con l’umanità,
non è contattabile e non si rivela.
Lo scenario cambia con l’avvento
della teologia cristiana, incentrata sul mistero della Rivelazione, per cui
l’uomo diventa recettore, depositario e testimone di nuove verità su Dio, su se stesso e sul suo destino: verità che
egli accetta e percepisce come tali per fede e cioè non contestabili, ma che,
come tali, in forza di questo assenso
interiore – la definizione di Agostino della fede è nihil aliud quam cum assensione cogitare – in forza di questo
trasporto istintivo che la fede intrattiene con la verità - non possono che
esercitare anche un potente stimolo sulla ragione stessa. La fede in qualche
modo fa da traino alla ragione
ponendo quesiti di fronte al quale il filosofo non riesce a rimanere
indifferente. Già in questo senso noi possiamo intuire come fede e ragione
subiscano momenti di reciproca attrazione; non solo come attrazione esercitata
dai misteri della fede sulla ragione, ma probabilmente anche in senso
contrario, per cui la ragione contribuisce a costruire i presupposti affinché
la fede si depositi nell’animo delle persone. Un percorso forse tortuoso, poco
notato, ma che vale la pena di provare ad esplorare.
La fonte della fede cristiana è,
come è noto, la Rivelazione. Però la Rivelazione, come scriveva Karl Barth, non
fabbrica automaticamente credenti. In qualche modo la fede deve essere già
presupposta affinché il seme della Rivelazione possa attecchire. Da dove viene
allora questa disposizione d’animo? Per quali processi questa cosa che
chiamiamo “fede” finisce con depositarsi sul fondo dell’anima classica creando
così il presupposto per l’accoglienza del messaggio divino – e cioè di quella
fusione tra cultura classica e cristiana su cui si reggerà l’Occidente?
Cercherò in questo breve intervento di
tracciare un ipotetico percorso dello spirito che potrebbe motivare quel
giudizio espresso da Giustino Martire o da Clemente Alessandrino secondo cui la
filosofia sarebbe servita ai pagani per condurli a Cristo, esattamente come la Legge era servita agli ebrei allo stesso
scopo. Quindi anche la ragione sarebbe in qualche modo implicata in questo
processo, diciamo così, di “conversione”. Ovviamente non può essere ritenuta la
sola causa, ma in qualche modo essa potrebbe avere recitato una parte
importante nel preparare il terreno su cui è germogliato il seme cristiano. Ma
in che modo?
Come ho appena detto, quando si
cerca di comprendere il processo di integrazione tra cultura classica e cultura
cristiana, non dobbiamo trascurare di considerare il fascino che il mistero
cristiano può avere esercitato su una cultura, come quella greca, da sempre
affascinata dai paradossi! I filosofi greci, giocando per così dire con la
ragione, si erano misurati con paradossi che ancora oggi vengono citati: il
paradosso detto “della freccia ferma” oppure quello detto “di Achille e la
tartaruga”. In che cosa consistevano? Attraverso il solo ragionamento era
possibile dimostrare che una freccia scagliata con l’arco non sarebbe riuscita
a procedere nello spazio; parimenti con lo stesso ragionamento si dimostrava
che Achille piè veloce, inseguendo una tartaruga, non sarebbe mai riuscito a
raggiungerla. Questi paradossi venivano dalla scuola di Elea – la scuola
fondata da Parmenide - ma oltre a questi
abbiamo il ventaglio dei paradossi proposti da quella cerchia di filosofi
ateniesi detti “sofisti” i quali erano particolarmente abili a produrre
ragionamenti che conducevano a conclusioni paradossali.
Se la ragione nell’età classica
amava misurarsi col paradosso quasi per sfidare se stessa, ricercando i propri
confini, possiamo a questo punto anche capire il fascino esercitato dai
paradossi della fede proposti dal cristianesimo. Paradossi cristiani che
possiamo ad esempio rintracciare, non solo nei grandi misteri, ma anche già
nelle parabole, ad esempio la parabola degli operai che vengono reclutati per
lavorare nel podere del Signore dove l’operaio che viene reclutato per ultimo e
che ha lavorato un’ora sola riceve lo stesso salario di chi ha lavorato tutta
la giornata, sollevando la protesta di quest’ultimo.
Se analizziamo più profondamente
il meccanismo logico che agisce nella parabola, noi vediamo, con opportuni
adeguamenti, che esso non è poi così diverso da quello usato per generare i
paradossi della “freccia ferma” o di Achille che non raggiunge mai la
tartaruga. Senza scendere nei dettagli diremo in sintesi che tutti questi
ragionamenti giocavano su un conflitto che si genera quando si tenta di rendere
commensurabile il finito con l’infinito, ponendo a contatto queste due
dimensioni. Perché la freccia rimane
ferma? Detto in parole molto povere: la freccia, nella misura in cui parte da
un punto determinato dello spazio-tempo, rimane prigioniera della struttura
finita del punto x di partenza perché non riesce ad uscire dal punto per
raggiungere il punto successivo. Per passare da un punto ad un altro dovrebbe
attraversare uno spazio infinito o indeterminato e ciò non le è possibile
perché non esiste un passaggio che mette in in comunicazione le due dimensioni
– il finito e l’infinito.
Anche nel paradosso evangelico un
operaio può lavorare un’ora, due ore, tre ore ecc. ma ciò è indifferente perché,
anche in questo caso, non c’è modo di misurare il rapporto tra il finito e
l’infinito – tra il tempo determinato e l’eternità. Le due dimensioni spaziano
su orizzonti diversi e seguono logiche diverse non sovrapponibili. Però a
differenza della freccia che rimane prigioniera in un punto dello spazio/tempo,
la parabola sembra dire che l’operaio infine raggiungerà l’infinito o
l’eternità (ossia quella retribuzione uguale per tutti). E questo fatto che
l’infinito possa essere comunque
raggiunto partendo da qualsiasi punto finito lascia intravvedere un nuovo
orizzonte di apertura della ragione.
Quindi è un po’ un errore pensare
che la ragione sia “razionale” e la fede “irrazionale”. I paradossi dimostrano
che la ragione è infine, nei suoi bordi, altrettanto irrazionale quanto la
fede. Ciò che voglio dire è che, nonostante quanto afferma San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, sulla
l’irrazionalità della fede cristiana – Paolo la chiama la “follia” - queste “schegge di follia” crescevano già a
margine del logos greco nel momento
in cui la ragione cercava di premere contro i propri confini cercando di
rendere commensurabili, ossia comunicabili, dimensioni inconciliabili: il
finito con l’infinito, il discreto con il continuo, il semplice e il complesso,
il determinato e l’indeterminato, la linea retta e la curva ecc. Quanti lati
deve a avere un poligono per diventare un cerchio? Infiniti! Ma il punto di
contatto con questa infinità non è rappresentabile, se non con la scoperta del
calcolo infinitesimale molti e molti secoli dopo.
Quando entrambe le dimensioni –
quando il finito e l’infinito - come nel
caso della freccia ferma, venivano spinte ad interagire secondo i principi
della logica, si generava il paradosso.
Come muta questo scenario nel successivo processo cristiano? Stiamo
ovviamente cercando di schematizzare un percorso dello spirito che in realtà è
stato molto più complesso e variegato. Ma schematizzando diremo semplicemente
che ciò che si presentava come un legame impossibile per la ragione diventa
possibile nel mondo della fede, e
cioè affidandosi ad un’altra risorsa in grado di stabilire un rapporto di
natura diversa con la verità.
Con l’infinito dei filosofi, non
si dialoga più con la ragione, bensì con la fede. Il paradosso viene dunque
trasferito all’interno di una nuova dimensione in grado di far comunicare
l’incomunicabile. Questa nuova dimensione è una dimensione interna al soggetto,
uno spazio che si apre dentro di noi: è l’interiorità
della persona dove ora giace il sentimento interno della presenza dell’infinito
come sentimento della presenza di Dio. Non è più il concetto di una infinità
non raggiungibile dalla ragione, ma ora è una presenza che si è resa tangibile
dentro di noi e che si lega a noi nel sentimento puro della fede. E qui fanno
testo le parole di Agostino “E io ti cercavo là, mentre tu stavi già dentro di
me!”
Nel percorso spirituale che abbiamo tracciato
sembra dunque che il momento della fede, vale a dire il momento in cui l’uomo
trasferisce i paradossi dell’infinito nell’interiorità soggettiva dove ritrova
Dio nella forma di un sentimento, rappresenti quasi una porta che si sia aperta
sotto la spinta di una ragione che premeva alla ricerca di una risoluzione dei
suoi conflitti. Questa pressione infine avrebbe generato una forma di coscienza
completamente nuova, una coscienza che è in grado di portare dentro di sé la
presenza di Dio, conservandola anche nei secoli futuri.
La figura emblematica - il
modello, l’icona - dove questi due
momenti, il finito e l’infinito, trovano una perfetta sintesi è rappresentata
dalla figura del Cristo – Cristo come persona vivente, ossia come soggetto
- che rappresenta il momento più alto di una sintesi tra il concetto del
finito, per cui Cristo è uomo (quindi condannato a morire, perché solo nella
morte si manifesta la finitezza dell’umano) e il concetto dell’infinito
rappresentato dalla sua contemporanea essenza semplice e divina. E’ dunque la
figura di Cristo a rappresentare il nuovo punto di incontro di un antico
paradosso.
E qui nasce per così dire il
cristianesimo della ragione, per cui vediamo che la fede – che secondo la
nostra descrizione quasi nasceva dalla pressione della ragione volta a superare
i suoi confini – fa a sua volta da traino alla ragione che ora dirige tutti i
suoi sforzi a rappresentare e a spiegare gli oggetti della fede: le caratteristiche
essenziali di Dio, nella sua semplicità e bontà in rapporto alla complessità e
al male presente nel mondo, e il mistero della Trinità che abbraccia anche il
paradosso della duplice natura di Cristo.
I vari tentativi di affrontare questo paradosso e di semplificare i
termini in gioco hanno dato poi origine a quella serie di eresie che
caratterizzano i primi secoli della civiltà cristiana. Però dobbiamo notare
anche un particolare importante e cioè che queste eresie si sviluppano in
ambienti culturali periferici dove non esisteva una tradizione e la
disponibilità di strumenti logici e filosofici sufficientemente elaborati per
misurarsi con un problema così complesso; e quindi si tendeva alla
semplificazione. Viceversa noi riscontriamo in pensatori come Agostino, e
soprattutto in Boezio, discepolo della Scuola di Atene, che aveva studiato a
fondo Platone, i matematici, la teoria della musica e la logica aristotelica,
anche una superiore capacità di
produrre argomenti e soluzioni razionali coerenti con l’ortodossia.
A partire da Boezio, e almeno fino
alle soglie del XII secolo, fede e ragione riescono a stabilire un legame molto
solido. Teologia e filosofia si confondono. Poi, con i francescani, nel tardo
Medioevo – e in particolare con Giovanni Duns Scoto e Guglielmo da Ockham, le
due sfere incominciarono via via a separarsi. Alla fede e alla ragione vengono riassegnati
ambiti distinti e fonti diverse di alimentazione per cui non ritroveremo più
quel forte compatibilismo riscontrabile in Boezio o in Tommaso D’Aquino.
Ciò stimolerà, nei secoli
successivi e fino ad oggi la ricerca di nuovi sistemi di interazione, con
vicende alterne, dove vedremo fede e ragione a volte negarsi a vicenda, a volte
accentuare i loro ambiti di incompatibilità, ma anche ritrovare una sintesi su
piani assolutamente nuovi. In generale, al di là delle alterne vicende generate
dalla interazione tra le due sfere, noi vediamo prevalere una tendenza ad
attribuire alla fede e alla ragione distinte radici e funzioni, però entrambe
indispensabili e complementari per la costruzione del nostro universo cognitivo
e morale.
In genere possiamo dire che tra le
due posizioni estreme - quella del credo
quia absurdum dei fideisti e quella dei positivisti che sostengono
viceversa che tutto ciò che non corrisponde agli standard di coerenza logica e
di verificabilità, debba essere considerato “privo di senso” - si va alla
ricerca di una nuova visione del concetto di “senso” che comprenda una sfera
motivazionale più vasta, caratterizzata anche
da norme, principi, credenze che, pur non costituendo materiale soggetto alle
regole di una analisi razionale - pur non fornendo nessuna informazione sul
mondo, pur sfuggendo alla dicotomia vero/falso - rivestono un significato strutturale, in quanto
procurano al credente motivazioni morali e comportamentali, nonché una solida
piattaforma formativa per la costruzione di una coscienza e un indirizzo per la
vita.
* Dagli atti del Convegno "Severino Boezio e Flavio Cassiodoro: eredità classica e cultura cristiana" svoltosi con grande successo di pubblico a Pavia lo scorso 29 settembre 2017.
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