domenica 17 febbraio 2019

GIORDANO BRUNO: un ricordo nell'anniversario della morte

GIORDANUS BRUNUS NOLANUS
Contea di Nola 1548-Roma 1600


Uno sguardo a Liveri di Nola e Livardi di San Paolo Belsito visti dalla collina di Castelcicala; in questi due piccoli borghi, a nord del Vesuvio, Giordano trascorse gli anni dell'infanzia e della prima adolescenza, per poi entrare nel monastero domenicano di Napoli a piazza San Domenico Maggiore. 
Giordano Bruno, frate domenicano, spirito ribelle e grande filosofo, fu condannato dalla Chiesa per le sue idee anticonformiste su Dio e sul mondo; gli fu tagliata la lingua con la mordacchia e bruciato vivo in Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600, per aver anticipato troppo i tempi e aver detto verità che solo oggi noi sentiamo familiari. Inginocchiato, Bruno non si sottomise, ma alla lettura della sentenza di morte scattò in piedi e ai suoi giudici gridò:"Avete forse più timore voi nel pronunciare questa sentenza che io nel riceverla".

mercoledì 6 febbraio 2019

Cicco Simonetta: un cammino lungo milleduecento chilometri



Era il 30 ottobre del 1480, quando sentii la possente chiave infilarsi nella toppa della serratura della stanza dove ero stato rinchiuso come un animale. Da un anno ero prigioniero! Nel nefasto mese di settembre dell’Anno del Signore del 1479, in poche giorni mi ritrovai dagli scanni del potere nella polvere. Erano le otto del mattino, quando quattro guardie armate mi prelevarono e mi condussero al patibolo.
“Indossate la tunica di lino e il cappuccio, messere Simonetta. Il percorso vi attende. La folla è già schierata ed è impaziente. Potete espiare ancora i vostri peccati recandovi ai due tabernacoli che troverete lungo la via” mi disse colui che guidava il drappello. (Voce maschile fuori campo)
Il quel momento capii perché mia madre, sessant’anni prima- avevo dieci anni allora e una curiosità inappagabile- mi aveva detto: “La seconda parte del sogno, piccolo mio, te la rivelerò quando supererai la metà di tua vita”. (Voce di donna fuori campo)
Allora gioii nel sentire le sue parole con le quali mi raccontava il sogno e mi disvelava nuovi orizzonti: “Eri un aquilotto, figlio, e volavi in alto, sempre più in alto, eludendo la traiettoria delle pietre e delle frecce che ti sferravano in abbondanza anche gli amici, mentre lasciavi per sempre il tuo nido per andare verso nuovi lidi, dove avresti conquistato il nuovo mondo fatto di commerci, viaggi e grandi opere.” (Voce di donna fuori campo)
Nel 1418 Francesco Sforza scese a Rossano Calabro per sposare la baronessa Polissena Ruffo di Calabria. Fu allora che i miei familiari conobbero il grande condottiero ed entrarono nelle sue grazie.
I miei zii dicono che non ero eccelso negli studi. Sì, non ero un secchione, è vero, perché è questo che si intende con l’aggettivo eccelso. E sapete perché? Perché apprendevo facilmente e non avevo bisogno di ripetere, ripetere, ripetere come fanno i secchioni. Mi bastava sentire le spiegazioni e il mio lavoro era quasi fatto.
Ero poco più che ventenne e stavo per laurearmi in diritto civile e canonico, quando zio Angelo mi portò a Milano con sé per introdurmi alla corte degli Sforza, dove ebbi la possibilità di fare apprendistato e prepararmi per una grande carriera come segretario di governo. L’intuito non mi difettava di certo, né il senso pratico e la voglia di farmi largo, anche a colpi di gomito. Inoltre, avevo il dono dell’opportunismo e della duttilità mentale.  Doti che non tardarono ad essere notate dal mio signore.
“Inizierai dal basso, figlio mio amato, ma con l’intelligenza che ti distingue conquisterai il cuore e la mente del tuo signore. Sii a lui fedele, sempre”, mi disse alla fine del racconto del sogno mia madre. (Voce di donna fuori campo)    
Le mie conoscenze del latino e del greco erano buone, quelle del diritto e delle materie amministrative eccelse. Avevo capito, però, che se volevo arrivare in alto dovevo conoscere altre lingue europee. E allora mi misi a studiare francese, tedesco, spagnolo e persino l’ebraico, indispensabile per interagire con i grandi mercanti ebrei di allora che dominavano l’economia europea.
Con quel bagaglio, iniziai a volare in alto, come quell’aquilotto che era apparso in sogno a mia madre.
Nel 1445 ero già segretario maggiore, così il mio peso a corte crebbe sempre di più, suscitando anche tante invidie. Gli anni che vanno dal 1445 al 1450 non furono per niente tranquilli per il mio signore.
Alfonso V, il nuovo re di Napoli, il pontefice e il duca visconteo si allearono per sconfiggere Francesco, che si vide costretto a cedere molte roccaforti nell’Italia centrale e meridionale, ma non perse la guerra, e in breve tempo si rimise in sella.
“Perderete tanto, figlio, ma guadagnerete di più, perché perdere a volte è guadagnare” mi aveva detto mia madre prima di lasciarmi andare al seguito dello zio Angelo, che mi attendeva in carrozza pensieroso. (Voce di donna fuori campo)
“Perderete, madre…!” esclamai. Non rispose. Si girò e si asciugò le lacrime. È il ricordo più nitido che conservo di lei. Le sue lacrime furono come stizze di luce in una caverna per me.
Nel 1450 fui mandato a presiedere la piazzaforte di Lodi, e ancora una volta mi distinsi portando a termine nel migliore dei modi l’incarico. Nello stesso anno, Francesco entrò a Milano acclamato come condottiero.
Da questo momento la mia carriera subì un’altra accelerazione fino a che diventai l’alter ego del condottiero. Su suo incarico, ma con la mia intelligenza, organizzai la pubblica amministrazione, favorii la costruzione di palazzi, chiese, canali, migliorai l’agricoltura e presi in pugno la politica degli Sforza, ma… Nuvole si stavano addensando all’orizzonte.

(Cambiando registro linguistico)   
Tutto iniziò a cambiare quando di me dissero che ero un accentratore, un doppiogiochista, un ipocrita. Divenni per molti una persona subdola, cinica, falsa e persino malvagia. Io me ne infischiavo, perché ritenevo che c’era tanta esagerazione nei loro giudizi e perché potevo contare sulla protezione del mio signore.
“Figliolo, sai qual è il peggior nemico di noi tutti”, mi disse una volta mia madre, rispondendo a una mia domanda giovanile, “l’invidia! Attento, perché per invidia il fratello uccide il fratello, il padre divora il figlio e l’amico ti consegna al boia. L’uomo fa fatica a riconoscere i propri privilegi, ma è accecato da quelli degli altri, e per questo si lascia spesso guidare dall’invidia.” (Voce di donna fuori campo)
Fino agli inizi del 1479 il mio potere aumentò sempre di più. Accumulai ricchezza, comperai immobili e proprietà, cercai di imparentare il mio casato con quello degli Sforza e delle altre famiglie che contavano, favorendo matrimoni di convenienza e tessendo una fitta rete di interessi. Io stesso sposai Elisabetta Visconti.
Era la sera di Santo Stefano del 1476. Milano era ammantata da uno spolverio di neve e il freddo era pungente. Nelle strade erano stati accesi dei fuochi. Il mio signore, Galeazzo Maria, stava entrando nella basilica di Santo Stefano Maggiore, quando tre sicari al soldo del re di Francia lo pugnalarono mortalmente. Da allora la lotta per prenderne il ducato si fece più aspra.
Quello stesso anno, insieme a Gian Galeazzo, suo figlio di circa nove anni, estromettemmo la di lui consorte, Bianca Maria Visconti, dalla legittima successione al marito.
Sì, l’ammetto, i costanti pericoli di quegli anni mi fecero diventare quasi dispotico. Dubitavo di tutti. Temevo che anche i muri mi spiassero. La situazione precipitò rapidamente alla fine del 1478. L’anno seguente fui arrestato e rinchiuso nel carcere di Pavia. Il mio destino era segnato.
Seconda parte
(Il passaggio alla seconda parte è scandito da un’esibizione di R. Nobile. Lo stato di prigioniero sarà testimoniato da una specie di saio)
Pavia, 30 ottobre 1480, ore 8 del mattino.
Sento ancora il freddo nelle mie ossa. Ottobre volgeva al termine e una nebbia fitta oscurava ogni cosa. Pavia era illividita e umida. I cani latravano e i buoi mugghiavano. Due giorni prima avevo fatto testamento perché presagivo la mia fine.
La notte del 29 fu agitata. Un dormiveglia continuo, e sogni, e incubi, e volti…  Verso l’una di notte feci un sogno che mi fece sudare freddo. Nel sogno, vidi mia madre che si aggirava tra la folla. In mano teneva un nodo scorsoio. Diceva che cercava uno sconosciuto cui doveva rivelare la seconda parte di un sogno. La chiamai dicendo che ero io la persona cui doveva narrare la seconda parte del sogno, ma lei non mi sentì e si dileguò.
La mattina presto venne nella mia cella un prete per i sacramenti.
“Sono qui per offrirvi il conforto della fede, messere Simonetta. Rimettete i vostri peccati all’Altissimo affinché possa accogliervi fra le sue braccia misericordiose” mi disse. (Voce maschile fuori campo)
Lo guardai di tralice. Veniva ad “offrirmi il conforto della fede” mentre, fra qualche ora, mi avrebbero staccato la testa dal corpo. Avrei voluto mandarlo via a malo modo, urlare tutta la mia rabbia. Mi feci il segno della croce e rimasi in silenzio. Verso le otto del mattino iniziai a sentire i passi felpati della morte, poi la porta si aprì ed io fui prelevato. Giunsi al patibolo fra due ali di folla che acclamavano il boia, fra esse c’erano molte persone che in più di un’occasione mi avevano applaudito e riverito.
In quel momento mi rimproverai per il bene che avevo fatto loro, giacché non ero disposto ad accettare l’ingratitudine di cui ero fatto oggetto in quel momento.
La sola cosa che mi dava conforto mentre procedevo a passi lenti verso il patibolo era andare indietro con la memoria. Allora pensai a mia madre, ai miei compagni di gioco, ai vicoli pietrosi del mio paese, ai pomeriggi estivi trascorsi all’ombra della torre del castello Barracco della mia amata Caccuri, oppure a esplorare le numerose grotte del territorio.
Contrariamente alla monotona pianura lombarda, le estati sull’altipiano della Pre Sila erano fresche e ottobre odorava di melagrana, olive, castagne e corbezzoli. Ho ancora nelle mie orecchie il canto che allietava le giornate e stemperava la durezza del lavoro delle raccoglitrici di olive che, con la testa fino ai piedi, raccoglievano le olive una ad una. Mi rimproverai il fatto di esserci ritornato poco, perché sempre preso da troppi impegni. Mi chiesi se avessi potuto fare qualcosa per contribuire a fare grande anche quell’ombelico di mondo così remoto, adagiato all’ombra della torre. Mi sentivo come quel figlio che smarrisce la via di casa.
“Dio, Dio…! Ne era valsa la pena lasciare la quieta del paese e degli studi per la frenesia del successo? Mi chiesi. “E che cos’è il successo, se alla fine ti ritrovi con un pugno di mosche in mano e tutti ti girano le spalle?” Mentre pensavo a queste cose il boia lasciò cadere la mannaia che mi staccò la testa dal corpo. Era finita tristemente la mia avventura di primo migrante calabrese in terra di Lombardia,
Regia e scenografia: Esecuzione di tre ballate di R. Nobile (una prima della pièce, una durante il passaggio alla seconda parte. L’ultima alla fine della) L’attore che personifica Simonetta potrebbe avere solo il cappello nella prima parte. Nella seconda potrebbe indossare un saio.)
                                                                     Cicco Simonetta

                                                    Prof. Cataldo Russo - Crucoli (KR)