giovedì 12 ottobre 2017

Eredità classica e cultura cristiana in Flavio Magno Aurelio Cassiodoro di Don Antonio Tarzia*



Cassiodoro il Grande nacque attorno al 485-490 a Squillace, antica sede vescovile (come leggiamo in una lettera di Papa Gelasio) e capoluogo amministrativo della grande regio tertia (comprendente il Bruttium et Lucania secondo l’ordinamento augusteo). Squillace, adagiata sulle colline dell’omonimo golfo, si espone al sole come un “grappolo d’uva” pronto alla vendemmia. “Essa vede il sole levarsi dal suo luogo d’origine quando il giorno ormai vicino annuncia l’aurora” e sotto i raggi solari “risplende di una propria chiarezza di luce da far pensare che sia addirittura la patria del sole, superata la fama di Rodi” (Cassiodoro Senatore “Variae”, traduzione e note di Lorenzo Viscido, Luigi Pellegrini Editore, 2005, pag. 263). Così parla il calabrese Cassiodoro della sua città d’origine a cui resterà sentimentalmente legato per tutta la vita. Secondo le carte geografiche del tempo Squillace si specchiava sul Mare Adriatico invece che sullo Ionio non ancora identificato dai romani come Mare autonomo.
All’età di dieci anni troviamo Cassiodoro giovane a Ravenna dove alla scuola di corte di Re Teodorico studia lettere, storia e filosofia, avendo per compagna di scuola la piccola Amalasunta, figlia di Teodorico, terzogenita e futura prima Regina d’Italia. Suo padre che possiamo chiamare Cassiodoro III per distinguerlo dal nonno e dal bisnonno anch’essi impegnati in politica, è dall’anno 500 Praefectus Praetorio, quasi viceré del regno dei Goti “che si estendeva dalla Sicilia alle Alpi e oltre fino al Danubio austriaco e dalla valle del Rodano fino alla Dalmazia” (Antonio Sirago, “I Cassiodoro”, Rubettino Editrice 1988, pag. 78).
Il nome, come la famiglia, è di origine siriana e da alcune iscrizioni antiche si risale al culto di Giove Cassio, così detto da un’altura presso Antiochia su cui sorgeva il tempio: come Apollodorus, Heliodorus equivale a Dono a Giove Cassio, Cassiodorus.
Il bisnonno del nostro Flavio Magno Aurelio Senatore che per comodità diciamo Cassiodoro I, è un ricco proprietario terriero di Calabria che sollecitato da Bisanzio e Ravenna si organizza un esercito in appoggio alla marina di Bisanzio e sconfigge i Vandali che dalla Sicilia e dalla Calabria riparano a Cartagine e nel Nord Africa.
Nel 440 scoppia tra le armate romane un dissidio tra il generale Aezio che fa capo a Roma e quindi al Senato e ai ricchi proprietari terrieri, e Albino, uomo di Ravenna. Per mettere la pace tra i due ed evitare scontri armati, da guerra civile, viene mandato un diacono molto influente e convincente, Leone, che trova la via della pace e poi eletto papa sarà Leone I.
Tra i generali romani il più potente del V secolo è il latifondista Aezio, così ricco che combatte per Roma nella Gallia con un esercito suo che paga regolarmente. Si incontra con Cassiodoro I vittorioso in Sicilia e ne nasce una profonda amicizia fatta di stima, affetto e fedeltà. Diventano amici per la pelle anche i figli: Cassiodoro II e Carpilione (secondogenito di Aezio) che da piccolo è stato ostaggio degli Unni e ne conosce bene la lingua. I due rampolli dopo qualche anno si ritrovano insieme come ambasciatori presso il terribile Attila che è disceso dalle Alpi e minaccia guerra e sterminio. A rabbonire il barbaro (già allora una leggenda di ferocia e di tattica militare) arriva anche Papa Leone I.
Ci sono state tante concause, una insurrezione interna all’esercito unno, una flotta di Bisanzio in arrivo, le parole di Leone I e l’amicizia di Aezio e del figlio Carpilione col popolo unno… Attila risalì le Alpi e nel 453 fu trovato morto nella sua tenda.
Alla vittoria politica su Attila seguono gravi fatti di sangue e tanto scompiglio. Cassiodoro II si ritira dalla politica attiva per quasi un ventennio e va ad amministrare il suo patrimonio crescente, il suo latifondo che arriverà da Salerno a Reggio Calabria compresa la Sila e gli allevamenti di cavalli, bovini e asini (L’esercito di Ravenna cavalcherà per oltre un secolo sui cavalli provenienti dagli allevamenti dei Cassiodoro, signori di Squillace e nobili di Calabria).
Aezio che si crede il padrone dell’impero d’Occidente chiede a Valentiniano, imperatore di Bisanzio la mano della figlia Placidia per il suo figlio primogenito Gaudenzio. Ne ottiene un netto rifiuto e nel 454 il 21 settembre, mentre inerme si trova in udienza da Valentiniano questo, in un acceso diverbio diventato rissa, lo trafigge con la spada.
Il barbaro Genserico, re dei Vandali e degli Alani, approfitta del marasma e viene a saccheggiare Roma due volte in 17 anni: nel 455 e nel 472.
Gli imperatori e i re di Costantinopoli, Roma e Cartagine si uccidono e si incoronano a ritmo veloce. Poi Costantinopoli invia un suo imperatore a Ravenna Giulio Nepote nel 474 ma nello stesso anno Oreste, già segretario di Attila, depone il nuovo imperatore d’Occidente che si rifugia in Dalmazia. Mette sul trono di Ravenna suo figlio il giovanissimo Romolo Augustolo. Ma nel 476, appena due anni dopo, Odoacre, il nuovo uomo forte, mandato da Bisanzio, depone il ragazzo e lo manda prigioniero in una villa-fortezza in Campania che era già stata di Lucullo.
Cassiodoro III entrò giovanissimo nelle grazie di Odoacre che prima lo ha fatto ministro del tesoro imperiale e poi gli affida come “consularis” la Sicilia. Forse memore dei buoni uffici di Cassiodoro I, facendo addirittura una eccezione alla norma del diritto pubblico romano, lo nomina quindi corrector della Lucania e della Calabria sua regione d’origine.
Con gli alti pini della Sila e gli alberi che crescono sulle rive del Po, si costruiscono i navigli per il porto di Ravenna (Cassiodoro IV parla di 1000 tra natanti militari e commerciali) e i cavalli degli allevamenti calabresi forniscono l’esercito di Odoacre. Nel 500 Cassiodoro III è Prefectus Pretorio.
Dobbiamo a Cassiodoro IV il termine “moderno” (già usato in un documento pontificio, ma nell’eccezione di “nuovo”). Egli lo propone in tutta la ricchezza e la profondità di novità dinamica fiorita sulle radici di un passato che si protende verso il futuro, come un seme gioviale di speranza che anticipa certezze.
“È indubbio che Cassiodoro si dimostri un “umanista cristiano”. La sistemazione scientifica da lui compiuta sulla linea della paideia classica integrata dalle scienze cristiane e tramandata lungo tutto il Medioevo nel sistema del Trivio e del Quatrivio, costituirà la base della cultura del medioevo cristiano, specialmente in Occidente. Su tale base sorgeranno – almeno in parte – le scuole episcopali e monastiche post-carolingie, che a poco a poco si svilupperanno nelle Universitas Studiorum e negli Studia pubblica delle città a partire dai secoli XIII e XIV” (Cassiodoro, “Le Istituzioni”, Introduzione e traduzione di Antonio Caruso, Vivere In, 2003, pag. 289).
Dobbiamo a lui più che ad ogni altro se i religiosi dei monasteri europei nel tempo triste e lungo, delle invasioni barbariche e delle guerre, bizantine, delle epidemie varie e carestie periodiche hanno ravvivato il fuoco della scienza e del sapere salvando dalla dispersione e dalla distruzione i tesori culturali, i testi della sapienza e del pensiero greco e romano. I personaggi che loro hanno con fedeltà e amore tradotto, trascritto , copiato e con intelligenza divulgato, sono arrivati fino a noi e fanno radice forte del futuro culturale dell’umanità.
“A differenza di Boezio, idealista e teorico, Cassiodoro fu uno spirito eminentemente pratico. Tutti i suoi scritti derivano da impulsi esteriori e intendono servire a particolari bisogni o circostanze del suo tempo e del suo ambiente” (Cassiodoro, Le Istituzioni, presentazione e traduzione di Antonio Caruso, o.c. pag. 288).
Papa Benedetto XVI nella sua udienza del mercoledì 12 marzo 2008 dedicata alla catechesi dei Padri della Chiesa, scrisse di Cassiodoro: “uomo di alto livello sociale, si dedicò alla vita politica e all’impegno culturale come pochi altri nell’occidente romano del suo tempo. Forse gli unici che potevano stargli alla pari in questo suo duplice interesse furono il già ricordato Boezio e il futuro Papa di Roma, Gregorio Magno (590-604). Consapevole della necessità di non lasciare svanire nella dimenticanza tutto il patrimonio umano e umanistico accumulato nei secoli d’oro dell’Impero Romano. Cassiodoro collaborò generosamente, e ai livelli più alti della responsabilità politica, con i popoli nuovi che avevano attraversato i confini dell’Impero e si erano stanziati in Italia. Anche lui fu modello di incontro culturale, di dialogo, di riconciliazione” (Benedetto XVI, Cassiodoro il Grande, Associazione Centro Culturale Cassiodoro 2011 [per concessione Libreria Editrice Vaticana] pagg. 3-4).
Fu il sogno e l’utopia di Cassiodoro rilanciare l’Impero Romano sfilacciato e distrutto, almeno in Occidente, come un Regno di Unità Europea. Diceva lui che mettendo insieme le tre forze: Diritto romano, carità cristiana e potenza militare dei Goti si poteva aprire una nuova era e un potere politico forte, così da ipotizzare un lungo futuro di pace. Le invasioni dei nuovi popoli, con diversità culturali e religiose, erano così accolti e incorporati: tutti fratelli in una nuova Patria fondata insieme.
Ma questa che poteva essere una profezia restò utopia per le guerre varie e terribili che sconvolsero la penisola e le città singole sempre sotto assedio di qualcuno, da Genserico a Totila, dai Longobardi ai Bizantini.
Cassiodoro era amico dei Papi del suo tempo e da Senatore per titolo politico, oltre che per nome proprio, aveva un palazzo a Roma, dove abitava spesso tra un viaggio a Bisanzio e l’altro, tra gli impegni governativi a Ravenna e le visite politiche alle altre città come Napoli, Reggio Calabria, Tiriolo, Castrovillari, Cosenza e al nord Como, Genova, Milano e Venezia.
Bibliotecario ed editore: fu il primo uomo del Libro
Col Pontefice Agapito aveva progettato una grande Biblioteca che doveva ospitare le opere del passato, i mille volumi dei Padri della Chiesa, i commentari più famosi della Bibbia e le grandi collezioni del sapere laico, i trattati scientifici, le enciclopedie naturalistiche e gli erbari della salute. Solo dopo i suoi settant’anni  e dopo la prigionia di quasi quindici anni a Costantinopoli la Biblioteca si realizzò nel monastero di Vivarium con lo Scriptorium esclusivo e i cento e più monaci fratelli e discepoli dello statista, magistrato, storico e biblista calabrese. Sulle rive del fiume Pellene, ai piedi del monte Moscio, oggi Copanello, si accese questo faro di cultura che per almeno 500 anni illuminò il Medioevo d’Europa. Nello Scriptorium si lavorava con la pergamena, si traducevano e copiavano i rotoli degli antichi papiri con un impegno assiduo regolato nel tempo diurno dalle meridiane e nella notte illuminata dalle lucerne a olio, confrontandosi con l’orologio ad acqua. Nella lettera 45 del primo libro delle Variae rivolta a nome del Re Teodorico all’illustre Patricio Boethio Cassiodoro parla di questa scoperta tecnica e di Boezio tesse il più bel elogio personale: “Per lungo tempo, infatti, hai con tanto zelo frequentato le scuole ateniesi a tal punto… da rendere dottrina romana le teorie dei Greci. Tu hai imparato con quale profondo pensiero vada penetrata in tutte le sue parti la filosofia speculativa, con quale processo mentale si apprende nelle sue divisioni la filosofia pratica, trasmettendo così ai senatori romulei quel che di straordinario avevano fatto nel mondo i Cecropidi. Mediante le tue traduzioni vengono letti, come se fossero itali, il musico Pitagora e l’astronomo Tolomeo, si ascoltano come Ausonii l’aritmetico Nicomaco e il geometra Euclide; discutono in lingua latina il metafisico Platone e il logico Aristotele. Tu inoltre hai consegnato in veste laziale ai siciliani l’ingegnere Archimede… La purezza delle tue parole ha reso tanto splendidi quegli scrittori, l’eleganza della tua lingua tanto cospicui, che anch’essi avrebbero preferito le tue opere a quelle proprie se contemporaneamente fossero stati a conoscenza dei loro e dei tuoi scritti” (Cassiodoro, Variae, o.c. pag. 75)
[Scusate la lunghezza della citazione ma il convegno odierno ha per protagonisti i due pilastri culturali del V e VI secolo Boezio e Cassiodoro]
Concludendo il mio intervento per un ulteriore approfondimento raccomando la lettura del volume di Franco Cardini, Cassiodoro il Grande, Jaca Book 2009, pag. 85 e seguenti; pag. 139 e seguenti. Inoltre trovo come ottima informazione sul personaggio, la sua santità e il suo umanesimo, gli Atti del convegno “Cassiodoro vir religiosus, beatus, sanctus del novembre 2012 stampati a Catanzaro nel 2015 da Grafiche Simone sas.
Nel discorso di Benedetto XVI del 12 marzo 2008 (già citato) troviamo questa riflessione: A Cassiodoro “le vicende storiche [avverse] non gli permisero di realizzare i suoi sogni politici e culturali, che miravano a creare una sintesi fra la tradizione romano-cristiana dell’Italia e la nuova cultura gotica. Quelle stesse vicende lo convinsero però della provvidenzialità del movimento monastico, che si andava affermando nelle terre cristiane. Decise di appoggiarlo dedicando ad esso tutte le sue ricchezze materiali e le sue forze spirituali”.
Perché Cassiodoro chiamò VIVARIUM il suo grande monastero costruito a Squillace sulle rive del fiume Pellene? Per le vasche di Copanello, per il sistema di grotte marine sotto il Monte Moscio?
Raimon Panikkar, uno dei più grandi pensatori del secolo scorso, autorità indiscussa nella spiritualità e nel dialogo interreligioso, nel 1982 fondò a Tavertet, in Catalogna, sulle montagne dietro Barcellona, un importante Centro di studi interculturale che in onore a Cassiodoro chiamò VIVARIUM.
Padre Antonio Caruso, scrittore di Civiltà Cattolica e membro della Segreteria di Stato Vaticana nella sua opera Cassiodoro, Ed. Rubettino (già citata) a pag. 93 ci annota che il vescovo ravennate Pietro II, contemporaneo di Teodorico e anche di Cassiodoro, eresse in Ravenna l’Oratorio di S. Andrea, con splendidi mosaici all’interno e una interessante “costruzione collaterale a due piani con logge e arcature detta VIVARIUM” e conclude “nome certo di presagio per Cassiodoro” che viveva a Ravenna da prestigioso politico, sensibile all’arte musiva e all’architettura antica e del suo tempo.
Grazie per l’attenzione


Don Antonio Tarzia, giornalista e fondatore della rivista "JESUS"

* Dagli atti del Convegno "Severino Boezio e Flavio Cassiodoro: eredità classica e cultura cristiana" svoltosi con grande successo di pubblico a  Pavia lo scorso 29 settembre 2017.

sabato 7 ottobre 2017

SEVERINO BOEZIO / EREDITA’ CLASSICA e CULTURA CRISTIANA di Mons. Giovanni Scanavino*



SEVERINO BOEZIO / EREDITA’ CLASSICA  e CULTURA CRISTIANA
Nella Diocesi di Pavia, Severino Boezio è venerato Santo e Martire, per aver subito la condanna a morte da parte dell’Imperatore Teodorico a causa della verità e della carità, per aver difeso il collega Albino dall’accusa di lesa maestà. Durante la prigionia nella famosa Torre di Pavia scrisse il diario a forma di dialogo con la Filosofia, dove dimostra tutta la sua appartenenza all’eredità classica e tutta la sua fede nel Dio sommo Bene, che lo ha riscattato dall’ingiustizia e dalla malvagità umana e politica.
EREDITA’ CLASSICA
Lo stile del suo diario, De consolatione philosophiae, dimostra tutta la sua appartenenza al mondo classico. Anzitutto la sua forma poetica e poi gli innumerevoli riferimenti alla filosofia classica, di Aristotele, di Platone e dei Neoplatonici,    e degli Stoici.
CULTURA CRISTIANA
Il cristianesimo non è professato esplicitamente e di proposito nel suo Diario, per dimostrare che di fronte all’ingiustizia e alla persecuzione tutta la verità della ricerca filosofica coincide con il messaggio cristiano. Severino si dimostra un vero maestro della vita interiore, che trova nella struttura della nostra interiorità le risorse necessarie per superare il dominio della violenza, dell’ingiustizia e dell’inganno. Il dialogo con la verità che abita nell’uomo interiore permette a chi è condannato ingiustamente di ritrovare la forza della giustizia e la vera prospettiva della vita futura, basata sul bene compiuto e sul premio del Sommo Bene. Questi valori ci permettono di collegare Boezio con la migliore filosofia cristiana, professata da S. Agostino nelle sue opere più note (vedi “De vera  religione” , “Confessiones” e “De civitate Dei”). Nel diario della “Consolatione” il riferimento ai testi cristiani non è immediato; non si parla volutamente di Cristo, ma lo si suppone attraverso l’illuminazione della filosofia, cioè del vero amore alla sapienza, professato dai veri filosofi delle più grandi scuole. Questa coincidenza dimostra la potenza e l’unità della struttura interiore dell’umanità. Non è vero che vince sempre il male e la prepotenza: al contrario, chi crede nella verità e nel bene, troverà in questi valori il premio di una vita senza fine. Lo studio della vera filosofia è la strada che porta alla vera beatitudine e che difende da ogni sopruso; la politica scelta per il bene comune porta alla vera costruzione dello Stato e al premio di chi ha vissuto per il bene dell’umanità.
Dio ci ha creati capaci di intendere e di amare: se sappiamo riflettere e credere nei valori che dirigono la nostra vita, nel silenzio, rientrando spesso in noi stessi e lasciandoci illuminare dalla consolazione della filosofia, troviamo la via universale, confermata dalla fede e propiziata dalla nostra struttura antropologica, che ci permette, come a Boezio, di raggiungere la vera maturità e quella sicurezza interiore che è più forte di ogni violenza.
E’ bello vedere in S. Pietro in Ciel d’oro di Pavia la perfetta corrispondenza tra Agostino (sul piano di sopra) e Boezio (nella cripta): lo stesso cammino culturale, la stessa fede, la stessa dedizione all’umanità attraverso l’insegnamento e la politica. Due giganti del pensiero e due eroi della perfetta carità: continuano a testimoniare ad ogni pellegrino la strada della vera dignità umana.
Un piccolo suggerimento culturale
Severino Boezio va conosciuto di più tra gli studenti e non solo quelli di filosofia; a Pavia va conosciuto di più da tutta la gente. E’ una questione di traduzione e di vera mediazione, perché la sapienza del suo Diario è la sapienza popolare di sempre. Se non ci preoccupiamo di mantenere viva questa tradizione, che prima di essere culturale o semplicemente filosofica è veramente popolare, rischiamo di produrre musei più che santuari. Ci dobbiamo impegnare a tradurre il De Consolatione con un linguaggio più accessibile e popolare, più vicino al modo di pensare dei nostri saggi di sempre. Sono utili le note storiche e i riferimenti al mondo antico, ma il dialogo sapienziale va conservato nella vivacità di sempre: così si apprezza il genio e il sacrificio di una vita. Proviamoci.

Mons. Giovanni Scanavino O.S.A.- Vescovo emerito di Orvieto-Todi

 * Dagli atti del Convegno "Severino Boezio e Flavio Cassiodoro: eredità classica e cultura cristiana" svoltosi con grande successo di pubblico a  Pavia lo scorso 29 settembre 2017. 

lunedì 2 ottobre 2017

“Cristianesimo della fede e cristianesimo della ragione” di Pier Giuseppe Milanesi*

“Cristianesimo della fede, cristianesimo della ragione” potrebbe costituire titolo per una ricerca di vasta portata, poiché questi due momenti, fede e ragione, nella progressione millenaria della storia del cristianesimo sono inscindibili, fin dalle sue origini dove vediamo Pietro e Giovanni – la fede e la ragione – coesistere all’interno dello stesso corpo evangelico.
Nella circostanza di questo nostro incontro, una riflessione, di portata più limitata, sul rapporto tra fede e ragione è stata sollecitata da alcune perplessità avanzate dagli studiosi proprio sulla figura di Boezio e in particolare sulla sua “Consolazione della filosofia”. Ci si domanda perché mai Boezio, condannato a morte da una ingiusta sentenza, non avesse cercato conforto nella fede, preferendo affidarsi alla filosofia, attribuendo a quest’ultima (e perciò alla ragione) la funzione di illuminare il cammino dell’uomo nei momenti più bui. Conoscendo la formazione e la personalità di Boezio, possiamo però giustificare le ragioni di questa scelta!  Molto probabilmente egli riteneva che i suoi contemporanei avessero molto più bisogno della ragione che non della fede. Anzi di fede, forse, ne avevano fin troppa, tale da sconfinare ampiamente nella superstizione, al punto che, come egli racconta all’inizio del libro, trovarono ampio credito, contro di lui, le accuse di complottismo, stregoneria e maleficio. E a questo punto non possiamo non concordare sul fatto che contro la superstizione solo la ragione può essere efficace, e perciò proprio la ragione è in grado di fornire un servizio indispensabile alla conservazione della purezza della fede. Questo sembra il messaggio che – credo -  Boezio abbia voluto comunicare.
Fede e ragione sono entrambi principi di autorità. In genere la ragione prevede metodi di ricerca basati su dati e principi dimostrabili e verificabili, mentre la fede comporta un atteggiamento verso alcune affermazioni che non sono, almeno al momento, dimostrabili e perciò richiede un impegno del soggetto, un atto di adesione e di partecipazione volontaria.
Se guardiamo al mondo classico possiamo affermare che il problema del rapporto tra fede e ragione non si sia mai chiaramente posto. La religione greca era costituita soprattutto da racconti mitologici rispetto ai quali i filosofi erano piuttosto indifferenti.  Anche il Dio di cui parlano i filosofi – ad esempio Platone, Aristotele o gli Stoici - ha ben poche caratteristiche religiose: esso è certamente un principio di intelligenza posto a governo del cosmo, ma non intrattiene un rapporto personale con l’umanità, non è contattabile e non si rivela.
Lo scenario cambia con l’avvento della teologia cristiana, incentrata sul mistero della Rivelazione, per cui l’uomo diventa recettore, depositario e testimone di nuove verità su Dio, su se stesso e sul suo destino: verità che egli accetta e percepisce come tali per fede e cioè non contestabili, ma che, come tali, in forza di questo assenso interiore – la definizione di Agostino della fede è nihil aliud quam cum assensione cogitare – in forza di questo trasporto istintivo che la fede intrattiene con la verità - non possono che esercitare anche un potente stimolo sulla ragione stessa. La fede in qualche modo fa da traino alla ragione ponendo quesiti di fronte al quale il filosofo non riesce a rimanere indifferente. Già in questo senso noi possiamo intuire come fede e ragione subiscano momenti di reciproca attrazione; non solo come attrazione esercitata dai misteri della fede sulla ragione, ma probabilmente anche in senso contrario, per cui la ragione contribuisce a costruire i presupposti affinché la fede si depositi nell’animo delle persone. Un percorso forse tortuoso, poco notato, ma che vale la pena di provare ad esplorare.
La fonte della fede cristiana è, come è noto, la Rivelazione. Però la Rivelazione, come scriveva Karl Barth, non fabbrica automaticamente credenti. In qualche modo la fede deve essere già presupposta affinché il seme della Rivelazione possa attecchire. Da dove viene allora questa disposizione d’animo? Per quali processi questa cosa che chiamiamo “fede” finisce con depositarsi sul fondo dell’anima classica creando così il presupposto per l’accoglienza del messaggio divino – e cioè di quella fusione tra cultura classica e cristiana su cui si reggerà l’Occidente? 
 Cercherò in questo breve intervento di tracciare un ipotetico percorso dello spirito che potrebbe motivare quel giudizio espresso da Giustino Martire o da Clemente Alessandrino secondo cui la filosofia sarebbe servita ai pagani per condurli a Cristo, esattamente come la Legge era servita agli ebrei allo stesso scopo. Quindi anche la ragione sarebbe in qualche modo implicata in questo processo, diciamo così, di “conversione”. Ovviamente non può essere ritenuta la sola causa, ma in qualche modo essa potrebbe avere recitato una parte importante nel preparare il terreno su cui è germogliato il seme cristiano. Ma in che modo?
Come ho appena detto, quando si cerca di comprendere il processo di integrazione tra cultura classica e cultura cristiana, non dobbiamo trascurare di considerare il fascino che il mistero cristiano può avere esercitato su una cultura, come quella greca, da sempre affascinata dai paradossi! I filosofi greci, giocando per così dire con la ragione, si erano misurati con paradossi che ancora oggi vengono citati: il paradosso detto “della freccia ferma” oppure quello detto “di Achille e la tartaruga”. In che cosa consistevano? Attraverso il solo ragionamento era possibile dimostrare che una freccia scagliata con l’arco non sarebbe riuscita a procedere nello spazio; parimenti con lo stesso ragionamento si dimostrava che Achille piè veloce, inseguendo una tartaruga, non sarebbe mai riuscito a raggiungerla. Questi paradossi venivano dalla scuola di Elea – la scuola fondata da Parmenide -  ma oltre a questi abbiamo il ventaglio dei paradossi proposti da quella cerchia di filosofi ateniesi detti “sofisti” i quali erano particolarmente abili a produrre ragionamenti che conducevano a conclusioni paradossali.
Se la ragione nell’età classica amava misurarsi col paradosso quasi per sfidare se stessa, ricercando i propri confini, possiamo a questo punto anche capire il fascino esercitato dai paradossi della fede proposti dal cristianesimo. Paradossi cristiani che possiamo ad esempio rintracciare, non solo nei grandi misteri, ma anche già nelle parabole, ad esempio la parabola degli operai che vengono reclutati per lavorare nel podere del Signore dove l’operaio che viene reclutato per ultimo e che ha lavorato un’ora sola riceve lo stesso salario di chi ha lavorato tutta la giornata, sollevando la protesta di quest’ultimo.
Se analizziamo più profondamente il meccanismo logico che agisce nella parabola, noi vediamo, con opportuni adeguamenti, che esso non è poi così diverso da quello usato per generare i paradossi della “freccia ferma” o di Achille che non raggiunge mai la tartaruga. Senza scendere nei dettagli diremo in sintesi che tutti questi ragionamenti giocavano su un conflitto che si genera quando si tenta di rendere commensurabile il finito con l’infinito, ponendo a contatto queste due dimensioni.  Perché la freccia rimane ferma? Detto in parole molto povere: la freccia, nella misura in cui parte da un punto determinato dello spazio-tempo, rimane prigioniera della struttura finita del punto x di partenza perché non riesce ad uscire dal punto per raggiungere il punto successivo. Per passare da un punto ad un altro dovrebbe attraversare uno spazio infinito o indeterminato e ciò non le è possibile perché non esiste un passaggio che mette in in comunicazione le due dimensioni – il finito e l’infinito.
Anche nel paradosso evangelico un operaio può lavorare un’ora, due ore, tre ore ecc. ma ciò è indifferente perché, anche in questo caso, non c’è modo di misurare il rapporto tra il finito e l’infinito – tra il tempo determinato e l’eternità. Le due dimensioni spaziano su orizzonti diversi e seguono logiche diverse non sovrapponibili. Però a differenza della freccia che rimane prigioniera in un punto dello spazio/tempo, la parabola sembra dire che l’operaio infine raggiungerà l’infinito o l’eternità (ossia quella retribuzione uguale per tutti). E questo fatto che l’infinito possa essere comunque raggiunto partendo da qualsiasi punto finito lascia intravvedere un nuovo orizzonte di apertura della ragione.
Quindi è un po’ un errore pensare che la ragione sia “razionale” e la fede “irrazionale”. I paradossi dimostrano che la ragione è infine, nei suoi bordi, altrettanto irrazionale quanto la fede. Ciò che voglio dire è che, nonostante quanto afferma San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, sulla l’irrazionalità della fede cristiana – Paolo la chiama la “follia” -  queste “schegge di follia” crescevano già a margine del logos greco nel momento in cui la ragione cercava di premere contro i propri confini cercando di rendere commensurabili, ossia comunicabili, dimensioni inconciliabili: il finito con l’infinito, il discreto con il continuo, il semplice e il complesso, il determinato e l’indeterminato, la linea retta e la curva ecc. Quanti lati deve a avere un poligono per diventare un cerchio? Infiniti! Ma il punto di contatto con questa infinità non è rappresentabile, se non con la scoperta del calcolo infinitesimale molti e molti secoli dopo.
Quando entrambe le dimensioni – quando il finito e l’infinito -  come nel caso della freccia ferma, venivano spinte ad interagire secondo i principi della logica, si generava il paradosso.  Come muta questo scenario nel successivo processo cristiano? Stiamo ovviamente cercando di schematizzare un percorso dello spirito che in realtà è stato molto più complesso e variegato. Ma schematizzando diremo semplicemente che ciò che si presentava come un legame impossibile per la ragione diventa possibile nel mondo della fede, e cioè affidandosi ad un’altra risorsa in grado di stabilire un rapporto di natura diversa con la verità.
Con l’infinito dei filosofi, non si dialoga più con la ragione, bensì con la fede. Il paradosso viene dunque trasferito all’interno di una nuova dimensione in grado di far comunicare l’incomunicabile. Questa nuova dimensione è una dimensione interna al soggetto, uno spazio che si apre dentro di noi: è l’interiorità della persona dove ora giace il sentimento interno della presenza dell’infinito come sentimento della presenza di Dio. Non è più il concetto di una infinità non raggiungibile dalla ragione, ma ora è una presenza che si è resa tangibile dentro di noi e che si lega a noi nel sentimento puro della fede. E qui fanno testo le parole di Agostino “E io ti cercavo là, mentre tu stavi già dentro di me!”    
 Nel percorso spirituale che abbiamo tracciato sembra dunque che il momento della fede, vale a dire il momento in cui l’uomo trasferisce i paradossi dell’infinito nell’interiorità soggettiva dove ritrova Dio nella forma di un sentimento, rappresenti quasi una porta che si sia aperta sotto la spinta di una ragione che premeva alla ricerca di una risoluzione dei suoi conflitti. Questa pressione infine avrebbe generato una forma di coscienza completamente nuova, una coscienza che è in grado di portare dentro di sé la presenza di Dio, conservandola anche nei secoli futuri.
La figura emblematica - il modello, l’icona -  dove questi due momenti, il finito e l’infinito, trovano una perfetta sintesi è rappresentata dalla figura del Cristo – Cristo come persona vivente, ossia come soggetto -  che rappresenta il momento più alto di una sintesi tra il concetto del finito, per cui Cristo è uomo (quindi condannato a morire, perché solo nella morte si manifesta la finitezza dell’umano) e il concetto dell’infinito rappresentato dalla sua contemporanea essenza semplice e divina. E’ dunque la figura di Cristo a rappresentare il nuovo punto di incontro di un antico paradosso.
E qui nasce per così dire il cristianesimo della ragione, per cui vediamo che la fede – che secondo la nostra descrizione quasi nasceva dalla pressione della ragione volta a superare i suoi confini – fa a sua volta da traino alla ragione che ora dirige tutti i suoi sforzi a rappresentare e a spiegare gli oggetti della fede: le caratteristiche essenziali di Dio, nella sua semplicità e bontà in rapporto alla complessità e al male presente nel mondo, e il mistero della Trinità che abbraccia anche il paradosso della duplice natura di Cristo.  I vari tentativi di affrontare questo paradosso e di semplificare i termini in gioco hanno dato poi origine a quella serie di eresie che caratterizzano i primi secoli della civiltà cristiana. Però dobbiamo notare anche un particolare importante e cioè che queste eresie si sviluppano in ambienti culturali periferici dove non esisteva una tradizione e la disponibilità di strumenti logici e filosofici sufficientemente elaborati per misurarsi con un problema così complesso; e quindi si tendeva alla semplificazione. Viceversa noi riscontriamo in pensatori come Agostino, e soprattutto in Boezio, discepolo della Scuola di Atene, che aveva studiato a fondo Platone, i matematici, la teoria della musica e la logica aristotelica, anche una superiore capacità di produrre argomenti e soluzioni razionali coerenti con l’ortodossia.
A partire da Boezio, e almeno fino alle soglie del XII secolo, fede e ragione riescono a stabilire un legame molto solido. Teologia e filosofia si confondono. Poi, con i francescani, nel tardo Medioevo – e in particolare con Giovanni Duns Scoto e Guglielmo da Ockham, le due sfere incominciarono via via a separarsi. Alla fede e alla ragione vengono riassegnati ambiti distinti e fonti diverse di alimentazione per cui non ritroveremo più quel forte compatibilismo riscontrabile in Boezio o in Tommaso D’Aquino.  
Ciò stimolerà, nei secoli successivi e fino ad oggi la ricerca di nuovi sistemi di interazione, con vicende alterne, dove vedremo fede e ragione a volte negarsi a vicenda, a volte accentuare i loro ambiti di incompatibilità, ma anche ritrovare una sintesi su piani assolutamente nuovi. In generale, al di là delle alterne vicende generate dalla interazione tra le due sfere, noi vediamo prevalere una tendenza ad attribuire alla fede e alla ragione distinte radici e funzioni, però entrambe indispensabili e complementari per la costruzione del nostro universo cognitivo e morale.
In genere possiamo dire che tra le due posizioni estreme - quella del credo quia absurdum dei fideisti e quella dei positivisti che sostengono viceversa che tutto ciò che non corrisponde agli standard di coerenza logica e di verificabilità, debba essere considerato “privo di senso” - si va alla ricerca di una nuova visione del concetto di “senso” che comprenda una sfera motivazionale più vasta, caratterizzata anche da norme, principi, credenze che, pur non costituendo materiale soggetto alle regole di una analisi razionale - pur non fornendo nessuna informazione sul mondo, pur sfuggendo alla dicotomia vero/falso -  rivestono un significato strutturale, in quanto procurano al credente motivazioni morali e comportamentali, nonché una solida piattaforma formativa per la costruzione di una coscienza e un indirizzo per la vita. 


* Dagli atti del Convegno "Severino Boezio e Flavio Cassiodoro: eredità classica e cultura cristiana" svoltosi con grande successo di pubblico a  Pavia lo scorso 29 settembre 2017.