sabato 21 ottobre 2017
giovedì 12 ottobre 2017
Eredità classica e cultura cristiana in Flavio Magno Aurelio Cassiodoro di Don Antonio Tarzia*
Cassiodoro il Grande nacque attorno al 485-490 a Squillace,
antica sede vescovile (come leggiamo in una lettera di Papa Gelasio) e
capoluogo amministrativo della grande regio
tertia (comprendente il Bruttium et
Lucania secondo l’ordinamento augusteo). Squillace, adagiata sulle colline
dell’omonimo golfo, si espone al sole come un “grappolo d’uva” pronto alla
vendemmia. “Essa vede il sole levarsi dal suo luogo d’origine quando il giorno
ormai vicino annuncia l’aurora” e sotto i raggi solari “risplende di una
propria chiarezza di luce da far pensare che sia addirittura la patria del
sole, superata la fama di Rodi” (Cassiodoro Senatore “Variae”, traduzione e
note di Lorenzo Viscido, Luigi Pellegrini Editore, 2005, pag. 263). Così parla
il calabrese Cassiodoro della sua città d’origine a cui resterà
sentimentalmente legato per tutta la vita. Secondo le carte geografiche del
tempo Squillace si specchiava sul Mare Adriatico invece che sullo Ionio non
ancora identificato dai romani come Mare autonomo.
All’età di dieci anni troviamo Cassiodoro giovane a Ravenna
dove alla scuola di corte di Re Teodorico studia lettere, storia e filosofia,
avendo per compagna di scuola la piccola Amalasunta, figlia di Teodorico,
terzogenita e futura prima Regina d’Italia. Suo padre che possiamo chiamare
Cassiodoro III per distinguerlo dal nonno e dal bisnonno anch’essi impegnati in
politica, è dall’anno 500 Praefectus
Praetorio, quasi viceré del regno dei Goti “che si estendeva dalla Sicilia
alle Alpi e oltre fino al Danubio austriaco e dalla valle del Rodano fino alla
Dalmazia” (Antonio Sirago, “I Cassiodoro”, Rubettino Editrice 1988, pag. 78).
Il nome, come la famiglia, è di origine siriana e da alcune
iscrizioni antiche si risale al culto di Giove Cassio, così detto da un’altura
presso Antiochia su cui sorgeva il tempio: come Apollodorus, Heliodorus
equivale a Dono a Giove Cassio, Cassiodorus.
Il bisnonno del nostro Flavio Magno Aurelio Senatore che per
comodità diciamo Cassiodoro I, è un ricco proprietario terriero di Calabria che
sollecitato da Bisanzio e Ravenna si organizza un esercito in appoggio alla
marina di Bisanzio e sconfigge i Vandali che dalla Sicilia e dalla Calabria
riparano a Cartagine e nel Nord Africa.
Nel 440 scoppia tra le armate romane un dissidio tra il
generale Aezio che fa capo a Roma e quindi al Senato e ai ricchi proprietari
terrieri, e Albino, uomo di Ravenna. Per mettere la pace tra i due ed evitare
scontri armati, da guerra civile, viene mandato un diacono molto influente e
convincente, Leone, che trova la via della pace e poi eletto papa sarà Leone I.
Tra i generali romani il più potente del V secolo è il
latifondista Aezio, così ricco che combatte per Roma nella Gallia con un
esercito suo che paga regolarmente. Si incontra con Cassiodoro I vittorioso in
Sicilia e ne nasce una profonda amicizia fatta di stima, affetto e fedeltà.
Diventano amici per la pelle anche i figli: Cassiodoro II e Carpilione
(secondogenito di Aezio) che da piccolo è stato ostaggio degli Unni e ne
conosce bene la lingua. I due rampolli dopo qualche anno si ritrovano insieme
come ambasciatori presso il terribile Attila che è disceso dalle Alpi e
minaccia guerra e sterminio. A rabbonire il barbaro (già allora una leggenda di
ferocia e di tattica militare) arriva anche Papa Leone I.
Ci sono state tante concause, una insurrezione interna
all’esercito unno, una flotta di Bisanzio in arrivo, le parole di Leone I e
l’amicizia di Aezio e del figlio Carpilione col popolo unno… Attila risalì le
Alpi e nel 453 fu trovato morto nella sua tenda.
Alla vittoria politica su Attila seguono gravi fatti di
sangue e tanto scompiglio. Cassiodoro II si ritira dalla politica attiva per
quasi un ventennio e va ad amministrare il suo patrimonio crescente, il suo
latifondo che arriverà da Salerno a Reggio Calabria compresa la Sila e gli
allevamenti di cavalli, bovini e asini (L’esercito di Ravenna cavalcherà per
oltre un secolo sui cavalli provenienti dagli allevamenti dei Cassiodoro,
signori di Squillace e nobili di Calabria).
Aezio che si crede il padrone dell’impero d’Occidente chiede
a Valentiniano, imperatore di Bisanzio la mano della figlia Placidia per il suo
figlio primogenito Gaudenzio. Ne ottiene un netto rifiuto e nel 454 il 21
settembre, mentre inerme si trova in udienza da Valentiniano questo, in un
acceso diverbio diventato rissa, lo trafigge con la spada.
Il barbaro Genserico, re dei Vandali e degli Alani,
approfitta del marasma e viene a saccheggiare Roma due volte in 17 anni: nel
455 e nel 472.
Gli imperatori e i re di Costantinopoli, Roma e Cartagine si
uccidono e si incoronano a ritmo veloce. Poi Costantinopoli invia un suo
imperatore a Ravenna Giulio Nepote nel 474 ma nello stesso anno Oreste, già
segretario di Attila, depone il nuovo imperatore d’Occidente che si rifugia in
Dalmazia. Mette sul trono di Ravenna suo figlio il giovanissimo Romolo
Augustolo. Ma nel 476, appena due anni dopo, Odoacre, il nuovo uomo forte,
mandato da Bisanzio, depone il ragazzo e lo manda prigioniero in una
villa-fortezza in Campania che era già stata di Lucullo.
Cassiodoro III entrò giovanissimo nelle grazie di Odoacre che
prima lo ha fatto ministro del tesoro imperiale e poi gli affida come
“consularis” la Sicilia. Forse memore dei buoni uffici di Cassiodoro I, facendo
addirittura una eccezione alla norma del diritto pubblico romano, lo nomina
quindi corrector della Lucania e
della Calabria sua regione d’origine.
Con gli alti pini della Sila e gli alberi che crescono sulle
rive del Po, si costruiscono i navigli per il porto di Ravenna (Cassiodoro IV
parla di 1000 tra natanti militari e commerciali) e i cavalli degli allevamenti
calabresi forniscono l’esercito di Odoacre. Nel 500 Cassiodoro III è Prefectus Pretorio.
Dobbiamo a Cassiodoro IV il termine “moderno” (già usato in
un documento pontificio, ma nell’eccezione di “nuovo”). Egli lo propone in
tutta la ricchezza e la profondità di novità dinamica fiorita sulle radici di
un passato che si protende verso il futuro, come un seme gioviale di speranza
che anticipa certezze.
“È indubbio che Cassiodoro si dimostri un “umanista
cristiano”. La sistemazione scientifica da lui compiuta sulla linea della paideia classica integrata dalle scienze
cristiane e tramandata lungo tutto il Medioevo nel sistema del Trivio e del
Quatrivio, costituirà la base della cultura del medioevo cristiano,
specialmente in Occidente. Su tale base sorgeranno – almeno in parte – le
scuole episcopali e monastiche post-carolingie, che a poco a poco si
svilupperanno nelle Universitas Studiorum
e negli Studia pubblica delle città a
partire dai secoli XIII e XIV” (Cassiodoro, “Le Istituzioni”, Introduzione e
traduzione di Antonio Caruso, Vivere In, 2003, pag. 289).
Dobbiamo a lui più che ad ogni altro se i religiosi dei monasteri
europei nel tempo triste e lungo, delle invasioni barbariche e delle guerre,
bizantine, delle epidemie varie e carestie periodiche hanno ravvivato il fuoco
della scienza e del sapere salvando dalla dispersione e dalla distruzione i
tesori culturali, i testi della sapienza e del pensiero greco e romano. I
personaggi che loro hanno con fedeltà e amore tradotto, trascritto , copiato e
con intelligenza divulgato, sono arrivati fino a noi e fanno radice forte del
futuro culturale dell’umanità.
“A differenza di Boezio, idealista e teorico, Cassiodoro fu
uno spirito eminentemente pratico. Tutti i suoi scritti derivano da impulsi
esteriori e intendono servire a particolari bisogni o circostanze del suo tempo
e del suo ambiente” (Cassiodoro, Le
Istituzioni, presentazione e traduzione di Antonio Caruso, o.c. pag. 288).
Papa Benedetto XVI nella sua udienza del mercoledì 12 marzo
2008 dedicata alla catechesi dei Padri della Chiesa, scrisse di Cassiodoro:
“uomo di alto livello sociale, si dedicò alla vita politica e all’impegno
culturale come pochi altri nell’occidente romano del suo tempo. Forse gli unici
che potevano stargli alla pari in questo suo duplice interesse furono il già
ricordato Boezio e il futuro Papa di Roma, Gregorio Magno (590-604).
Consapevole della necessità di non lasciare svanire nella dimenticanza tutto il
patrimonio umano e umanistico accumulato nei secoli d’oro dell’Impero Romano.
Cassiodoro collaborò generosamente, e ai livelli più alti della responsabilità
politica, con i popoli nuovi che avevano attraversato i confini dell’Impero e
si erano stanziati in Italia. Anche lui fu modello di incontro culturale, di
dialogo, di riconciliazione” (Benedetto XVI, Cassiodoro il Grande, Associazione Centro Culturale Cassiodoro 2011
[per concessione Libreria Editrice Vaticana] pagg. 3-4).
Fu il sogno e l’utopia di Cassiodoro rilanciare l’Impero
Romano sfilacciato e distrutto, almeno in Occidente, come un Regno di Unità
Europea. Diceva lui che mettendo insieme le tre forze: Diritto romano, carità
cristiana e potenza militare dei Goti si poteva aprire una nuova era e un
potere politico forte, così da ipotizzare un lungo futuro di pace. Le invasioni
dei nuovi popoli, con diversità culturali e religiose, erano così accolti e
incorporati: tutti fratelli in una nuova Patria fondata insieme.
Ma questa che poteva essere una profezia restò utopia per le
guerre varie e terribili che sconvolsero la penisola e le città singole sempre
sotto assedio di qualcuno, da Genserico a Totila, dai Longobardi ai Bizantini.
Cassiodoro era amico dei Papi del suo tempo e da Senatore per
titolo politico, oltre che per nome proprio, aveva un palazzo a Roma, dove
abitava spesso tra un viaggio a Bisanzio e l’altro, tra gli impegni governativi
a Ravenna e le visite politiche alle altre città come Napoli, Reggio Calabria,
Tiriolo, Castrovillari, Cosenza e al nord Como, Genova, Milano e Venezia.
Bibliotecario ed editore: fu il primo uomo del Libro
Col Pontefice Agapito aveva progettato una grande Biblioteca
che doveva ospitare le opere del passato, i mille volumi dei Padri della
Chiesa, i commentari più famosi della Bibbia e le grandi collezioni del sapere
laico, i trattati scientifici, le enciclopedie naturalistiche e gli erbari
della salute. Solo dopo i suoi settant’anni
e dopo la prigionia di quasi quindici anni a Costantinopoli la
Biblioteca si realizzò nel monastero di Vivarium con lo Scriptorium esclusivo e i cento e più monaci fratelli e discepoli
dello statista, magistrato, storico e biblista calabrese. Sulle rive del fiume
Pellene, ai piedi del monte Moscio, oggi Copanello, si accese questo faro di
cultura che per almeno 500 anni illuminò il Medioevo d’Europa. Nello
Scriptorium si lavorava con la pergamena, si traducevano e copiavano i rotoli
degli antichi papiri con un impegno assiduo regolato nel tempo diurno dalle
meridiane e nella notte illuminata dalle lucerne a olio, confrontandosi con
l’orologio ad acqua. Nella lettera 45 del primo libro delle Variae rivolta a nome del Re Teodorico
all’illustre Patricio Boethio
Cassiodoro parla di questa scoperta tecnica e di Boezio tesse il più bel elogio
personale: “Per lungo tempo, infatti, hai con tanto zelo frequentato le scuole
ateniesi a tal punto… da rendere dottrina romana le teorie dei Greci. Tu hai
imparato con quale profondo pensiero vada penetrata in tutte le sue parti la
filosofia speculativa, con quale processo mentale si apprende nelle sue
divisioni la filosofia pratica, trasmettendo così ai senatori romulei quel che
di straordinario avevano fatto nel mondo i Cecropidi. Mediante le tue
traduzioni vengono letti, come se fossero itali, il musico Pitagora e
l’astronomo Tolomeo, si ascoltano come Ausonii l’aritmetico Nicomaco e il
geometra Euclide; discutono in lingua latina il metafisico Platone e il logico
Aristotele. Tu inoltre hai consegnato in veste laziale ai siciliani l’ingegnere
Archimede… La purezza delle tue parole ha reso tanto splendidi quegli
scrittori, l’eleganza della tua lingua tanto cospicui, che anch’essi avrebbero
preferito le tue opere a quelle proprie se contemporaneamente fossero stati a
conoscenza dei loro e dei tuoi scritti” (Cassiodoro, Variae, o.c. pag. 75)
[Scusate la lunghezza della citazione ma il convegno odierno
ha per protagonisti i due pilastri culturali del V e VI secolo Boezio e
Cassiodoro]
Concludendo il mio intervento per un ulteriore
approfondimento raccomando la lettura del volume di Franco Cardini, Cassiodoro il Grande, Jaca Book 2009,
pag. 85 e seguenti; pag. 139 e seguenti. Inoltre trovo come ottima informazione
sul personaggio, la sua santità e il suo umanesimo, gli Atti del convegno
“Cassiodoro vir religiosus, beatus,
sanctus del novembre 2012 stampati a Catanzaro nel 2015 da Grafiche Simone
sas.
Nel discorso di Benedetto XVI del 12 marzo 2008 (già citato)
troviamo questa riflessione: A Cassiodoro “le vicende storiche [avverse] non
gli permisero di realizzare i suoi sogni politici e culturali, che miravano a
creare una sintesi fra la tradizione romano-cristiana dell’Italia e la nuova
cultura gotica. Quelle stesse vicende lo convinsero però della provvidenzialità
del movimento monastico, che si andava affermando nelle terre cristiane. Decise
di appoggiarlo dedicando ad esso tutte le sue ricchezze materiali e le sue
forze spirituali”.
Perché Cassiodoro chiamò VIVARIUM il suo grande monastero
costruito a Squillace sulle rive del fiume Pellene? Per le vasche di Copanello,
per il sistema di grotte marine sotto il Monte Moscio?
Raimon Panikkar, uno dei più grandi pensatori del secolo
scorso, autorità indiscussa nella spiritualità e nel dialogo interreligioso,
nel 1982 fondò a Tavertet, in Catalogna, sulle montagne dietro Barcellona, un
importante Centro di studi interculturale che in onore a Cassiodoro chiamò
VIVARIUM.
Padre Antonio Caruso, scrittore di Civiltà Cattolica e membro della Segreteria di Stato Vaticana nella
sua opera Cassiodoro, Ed. Rubettino
(già citata) a pag. 93 ci annota che il vescovo ravennate Pietro II,
contemporaneo di Teodorico e anche di Cassiodoro, eresse in Ravenna l’Oratorio
di S. Andrea, con splendidi mosaici all’interno e una interessante “costruzione
collaterale a due piani con logge e arcature detta VIVARIUM” e conclude “nome
certo di presagio per Cassiodoro” che viveva a Ravenna da prestigioso politico,
sensibile all’arte musiva e all’architettura antica e del suo tempo.
Grazie per l’attenzione
Don Antonio Tarzia, giornalista e fondatore della rivista "JESUS"
* Dagli atti del Convegno "Severino Boezio e Flavio Cassiodoro: eredità classica e cultura cristiana" svoltosi con grande successo di pubblico a Pavia lo scorso 29 settembre 2017.
sabato 7 ottobre 2017
SEVERINO BOEZIO / EREDITA’ CLASSICA e CULTURA CRISTIANA di Mons. Giovanni Scanavino*
SEVERINO
BOEZIO / EREDITA’ CLASSICA e CULTURA
CRISTIANA
Nella
Diocesi di Pavia, Severino Boezio è venerato Santo e Martire, per aver subito
la condanna a morte da parte dell’Imperatore Teodorico a causa della verità e
della carità, per aver difeso il collega Albino dall’accusa di lesa maestà.
Durante la prigionia nella famosa Torre di Pavia scrisse il diario a forma di
dialogo con la Filosofia, dove dimostra tutta la sua appartenenza all’eredità
classica e tutta la sua fede nel Dio sommo Bene, che lo ha riscattato
dall’ingiustizia e dalla malvagità umana e politica.
EREDITA’
CLASSICA
Lo stile del
suo diario, De consolatione philosophiae,
dimostra tutta la sua appartenenza al mondo classico. Anzitutto la sua forma
poetica e poi gli innumerevoli riferimenti alla filosofia classica, di
Aristotele, di Platone e dei Neoplatonici,
e degli Stoici.
CULTURA
CRISTIANA
Il
cristianesimo non è professato esplicitamente e di proposito nel suo Diario,
per dimostrare che di fronte all’ingiustizia e alla persecuzione tutta la
verità della ricerca filosofica coincide con il messaggio cristiano. Severino
si dimostra un vero maestro della vita interiore, che trova nella struttura
della nostra interiorità le risorse necessarie per superare il dominio della
violenza, dell’ingiustizia e dell’inganno. Il dialogo con la verità che abita
nell’uomo interiore permette a chi è condannato ingiustamente di ritrovare la
forza della giustizia e la vera prospettiva della vita futura, basata sul bene
compiuto e sul premio del Sommo Bene. Questi valori ci permettono di collegare
Boezio con la migliore filosofia cristiana, professata da S. Agostino nelle sue
opere più note (vedi “De vera religione”
, “Confessiones” e “De civitate Dei”). Nel diario della “Consolatione” il
riferimento ai testi cristiani non è immediato; non si parla volutamente di Cristo,
ma lo si suppone attraverso l’illuminazione della filosofia, cioè del vero
amore alla sapienza, professato dai veri filosofi delle più grandi scuole.
Questa coincidenza dimostra la potenza e l’unità della struttura interiore
dell’umanità. Non è vero che vince sempre il male e la prepotenza: al
contrario, chi crede nella verità e nel bene, troverà in questi valori il
premio di una vita senza fine. Lo studio della vera filosofia è la strada che
porta alla vera beatitudine e che difende da ogni sopruso; la politica scelta
per il bene comune porta alla vera costruzione dello Stato e al premio di chi
ha vissuto per il bene dell’umanità.
Dio ci ha
creati capaci di intendere e di amare: se sappiamo riflettere e credere nei
valori che dirigono la nostra vita, nel silenzio, rientrando spesso in noi stessi
e lasciandoci illuminare dalla consolazione della filosofia, troviamo la via
universale, confermata dalla fede e propiziata dalla nostra struttura
antropologica, che ci permette, come a Boezio, di raggiungere la vera maturità
e quella sicurezza interiore che è più forte di ogni violenza.
E’ bello
vedere in S. Pietro in Ciel d’oro di Pavia la perfetta corrispondenza tra
Agostino (sul piano di sopra) e Boezio (nella cripta): lo stesso cammino
culturale, la stessa fede, la stessa dedizione all’umanità attraverso
l’insegnamento e la politica. Due giganti del pensiero e due eroi della
perfetta carità: continuano a testimoniare ad ogni pellegrino la strada della
vera dignità umana.
Un
piccolo suggerimento culturale
Severino Boezio
va conosciuto di più tra gli studenti e non solo quelli di filosofia; a Pavia
va conosciuto di più da tutta la gente. E’ una questione di traduzione e di
vera mediazione, perché la sapienza del suo Diario è la sapienza popolare di
sempre. Se non ci preoccupiamo di mantenere viva questa tradizione, che prima
di essere culturale o semplicemente filosofica è veramente popolare, rischiamo
di produrre musei più che santuari. Ci dobbiamo impegnare a tradurre il De
Consolatione con un linguaggio più accessibile e popolare, più vicino al modo
di pensare dei nostri saggi di sempre. Sono utili le note storiche e i
riferimenti al mondo antico, ma il dialogo sapienziale va conservato nella
vivacità di sempre: così si apprezza il genio e il
sacrificio di una vita. Proviamoci.
Mons. Giovanni Scanavino O.S.A.- Vescovo
emerito di Orvieto-Todi
* Dagli atti del Convegno "Severino Boezio e
Flavio Cassiodoro: eredità classica e cultura cristiana" svoltosi con
grande successo di pubblico a Pavia lo scorso 29 settembre 2017.
mercoledì 4 ottobre 2017
lunedì 2 ottobre 2017
“Cristianesimo della fede e cristianesimo della ragione” di Pier Giuseppe Milanesi*
“Cristianesimo della fede,
cristianesimo della ragione” potrebbe costituire titolo per una ricerca di
vasta portata, poiché questi due momenti, fede e ragione, nella progressione
millenaria della storia del cristianesimo sono inscindibili, fin dalle sue origini
dove vediamo Pietro e Giovanni – la fede e la ragione – coesistere all’interno
dello stesso corpo evangelico.
* Dagli atti del Convegno "Severino Boezio e Flavio Cassiodoro: eredità classica e cultura cristiana" svoltosi con grande successo di pubblico a Pavia lo scorso 29 settembre 2017.
Nella circostanza di questo nostro
incontro, una riflessione, di portata più limitata, sul rapporto tra fede e
ragione è stata sollecitata da alcune perplessità avanzate dagli studiosi
proprio sulla figura di Boezio e in particolare sulla sua “Consolazione della
filosofia”. Ci si domanda perché mai Boezio, condannato a morte da una ingiusta
sentenza, non avesse cercato conforto nella fede, preferendo affidarsi alla
filosofia, attribuendo a quest’ultima (e perciò alla ragione) la funzione di
illuminare il cammino dell’uomo nei momenti più bui. Conoscendo la formazione e
la personalità di Boezio, possiamo però giustificare le ragioni di questa scelta! Molto probabilmente egli riteneva che i suoi
contemporanei avessero molto più bisogno della ragione che non della fede. Anzi
di fede, forse, ne avevano fin troppa, tale da sconfinare ampiamente nella
superstizione, al punto che, come egli racconta all’inizio del libro, trovarono
ampio credito, contro di lui, le accuse di complottismo, stregoneria e
maleficio. E a questo punto non possiamo non concordare sul fatto che contro la
superstizione solo la ragione può essere efficace, e perciò proprio la ragione
è in grado di fornire un servizio indispensabile alla conservazione della
purezza della fede. Questo sembra il messaggio che – credo - Boezio abbia voluto comunicare.
Fede e ragione sono entrambi
principi di autorità. In genere la ragione prevede metodi di ricerca basati su
dati e principi dimostrabili e verificabili, mentre la fede comporta un
atteggiamento verso alcune affermazioni che non sono, almeno al momento,
dimostrabili e perciò richiede un impegno del soggetto, un atto di adesione e
di partecipazione volontaria.
Se guardiamo al mondo classico
possiamo affermare che il problema del rapporto tra fede e ragione non si sia
mai chiaramente posto. La religione greca era costituita soprattutto da
racconti mitologici rispetto ai quali i filosofi erano piuttosto
indifferenti. Anche il Dio di cui
parlano i filosofi – ad esempio Platone, Aristotele o gli Stoici - ha ben poche
caratteristiche religiose: esso è certamente un principio di intelligenza posto
a governo del cosmo, ma non intrattiene un rapporto personale con l’umanità,
non è contattabile e non si rivela.
Lo scenario cambia con l’avvento
della teologia cristiana, incentrata sul mistero della Rivelazione, per cui
l’uomo diventa recettore, depositario e testimone di nuove verità su Dio, su se stesso e sul suo destino: verità che
egli accetta e percepisce come tali per fede e cioè non contestabili, ma che,
come tali, in forza di questo assenso
interiore – la definizione di Agostino della fede è nihil aliud quam cum assensione cogitare – in forza di questo
trasporto istintivo che la fede intrattiene con la verità - non possono che
esercitare anche un potente stimolo sulla ragione stessa. La fede in qualche
modo fa da traino alla ragione
ponendo quesiti di fronte al quale il filosofo non riesce a rimanere
indifferente. Già in questo senso noi possiamo intuire come fede e ragione
subiscano momenti di reciproca attrazione; non solo come attrazione esercitata
dai misteri della fede sulla ragione, ma probabilmente anche in senso
contrario, per cui la ragione contribuisce a costruire i presupposti affinché
la fede si depositi nell’animo delle persone. Un percorso forse tortuoso, poco
notato, ma che vale la pena di provare ad esplorare.
La fonte della fede cristiana è,
come è noto, la Rivelazione. Però la Rivelazione, come scriveva Karl Barth, non
fabbrica automaticamente credenti. In qualche modo la fede deve essere già
presupposta affinché il seme della Rivelazione possa attecchire. Da dove viene
allora questa disposizione d’animo? Per quali processi questa cosa che
chiamiamo “fede” finisce con depositarsi sul fondo dell’anima classica creando
così il presupposto per l’accoglienza del messaggio divino – e cioè di quella
fusione tra cultura classica e cristiana su cui si reggerà l’Occidente?
Cercherò in questo breve intervento di
tracciare un ipotetico percorso dello spirito che potrebbe motivare quel
giudizio espresso da Giustino Martire o da Clemente Alessandrino secondo cui la
filosofia sarebbe servita ai pagani per condurli a Cristo, esattamente come la Legge era servita agli ebrei allo stesso
scopo. Quindi anche la ragione sarebbe in qualche modo implicata in questo
processo, diciamo così, di “conversione”. Ovviamente non può essere ritenuta la
sola causa, ma in qualche modo essa potrebbe avere recitato una parte
importante nel preparare il terreno su cui è germogliato il seme cristiano. Ma
in che modo?
Come ho appena detto, quando si
cerca di comprendere il processo di integrazione tra cultura classica e cultura
cristiana, non dobbiamo trascurare di considerare il fascino che il mistero
cristiano può avere esercitato su una cultura, come quella greca, da sempre
affascinata dai paradossi! I filosofi greci, giocando per così dire con la
ragione, si erano misurati con paradossi che ancora oggi vengono citati: il
paradosso detto “della freccia ferma” oppure quello detto “di Achille e la
tartaruga”. In che cosa consistevano? Attraverso il solo ragionamento era
possibile dimostrare che una freccia scagliata con l’arco non sarebbe riuscita
a procedere nello spazio; parimenti con lo stesso ragionamento si dimostrava
che Achille piè veloce, inseguendo una tartaruga, non sarebbe mai riuscito a
raggiungerla. Questi paradossi venivano dalla scuola di Elea – la scuola
fondata da Parmenide - ma oltre a questi
abbiamo il ventaglio dei paradossi proposti da quella cerchia di filosofi
ateniesi detti “sofisti” i quali erano particolarmente abili a produrre
ragionamenti che conducevano a conclusioni paradossali.
Se la ragione nell’età classica
amava misurarsi col paradosso quasi per sfidare se stessa, ricercando i propri
confini, possiamo a questo punto anche capire il fascino esercitato dai
paradossi della fede proposti dal cristianesimo. Paradossi cristiani che
possiamo ad esempio rintracciare, non solo nei grandi misteri, ma anche già
nelle parabole, ad esempio la parabola degli operai che vengono reclutati per
lavorare nel podere del Signore dove l’operaio che viene reclutato per ultimo e
che ha lavorato un’ora sola riceve lo stesso salario di chi ha lavorato tutta
la giornata, sollevando la protesta di quest’ultimo.
Se analizziamo più profondamente
il meccanismo logico che agisce nella parabola, noi vediamo, con opportuni
adeguamenti, che esso non è poi così diverso da quello usato per generare i
paradossi della “freccia ferma” o di Achille che non raggiunge mai la
tartaruga. Senza scendere nei dettagli diremo in sintesi che tutti questi
ragionamenti giocavano su un conflitto che si genera quando si tenta di rendere
commensurabile il finito con l’infinito, ponendo a contatto queste due
dimensioni. Perché la freccia rimane
ferma? Detto in parole molto povere: la freccia, nella misura in cui parte da
un punto determinato dello spazio-tempo, rimane prigioniera della struttura
finita del punto x di partenza perché non riesce ad uscire dal punto per
raggiungere il punto successivo. Per passare da un punto ad un altro dovrebbe
attraversare uno spazio infinito o indeterminato e ciò non le è possibile
perché non esiste un passaggio che mette in in comunicazione le due dimensioni
– il finito e l’infinito.
Anche nel paradosso evangelico un
operaio può lavorare un’ora, due ore, tre ore ecc. ma ciò è indifferente perché,
anche in questo caso, non c’è modo di misurare il rapporto tra il finito e
l’infinito – tra il tempo determinato e l’eternità. Le due dimensioni spaziano
su orizzonti diversi e seguono logiche diverse non sovrapponibili. Però a
differenza della freccia che rimane prigioniera in un punto dello spazio/tempo,
la parabola sembra dire che l’operaio infine raggiungerà l’infinito o
l’eternità (ossia quella retribuzione uguale per tutti). E questo fatto che
l’infinito possa essere comunque
raggiunto partendo da qualsiasi punto finito lascia intravvedere un nuovo
orizzonte di apertura della ragione.
Quindi è un po’ un errore pensare
che la ragione sia “razionale” e la fede “irrazionale”. I paradossi dimostrano
che la ragione è infine, nei suoi bordi, altrettanto irrazionale quanto la
fede. Ciò che voglio dire è che, nonostante quanto afferma San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, sulla
l’irrazionalità della fede cristiana – Paolo la chiama la “follia” - queste “schegge di follia” crescevano già a
margine del logos greco nel momento
in cui la ragione cercava di premere contro i propri confini cercando di
rendere commensurabili, ossia comunicabili, dimensioni inconciliabili: il
finito con l’infinito, il discreto con il continuo, il semplice e il complesso,
il determinato e l’indeterminato, la linea retta e la curva ecc. Quanti lati
deve a avere un poligono per diventare un cerchio? Infiniti! Ma il punto di
contatto con questa infinità non è rappresentabile, se non con la scoperta del
calcolo infinitesimale molti e molti secoli dopo.
Quando entrambe le dimensioni –
quando il finito e l’infinito - come nel
caso della freccia ferma, venivano spinte ad interagire secondo i principi
della logica, si generava il paradosso.
Come muta questo scenario nel successivo processo cristiano? Stiamo
ovviamente cercando di schematizzare un percorso dello spirito che in realtà è
stato molto più complesso e variegato. Ma schematizzando diremo semplicemente
che ciò che si presentava come un legame impossibile per la ragione diventa
possibile nel mondo della fede, e
cioè affidandosi ad un’altra risorsa in grado di stabilire un rapporto di
natura diversa con la verità.
Con l’infinito dei filosofi, non
si dialoga più con la ragione, bensì con la fede. Il paradosso viene dunque
trasferito all’interno di una nuova dimensione in grado di far comunicare
l’incomunicabile. Questa nuova dimensione è una dimensione interna al soggetto,
uno spazio che si apre dentro di noi: è l’interiorità
della persona dove ora giace il sentimento interno della presenza dell’infinito
come sentimento della presenza di Dio. Non è più il concetto di una infinità
non raggiungibile dalla ragione, ma ora è una presenza che si è resa tangibile
dentro di noi e che si lega a noi nel sentimento puro della fede. E qui fanno
testo le parole di Agostino “E io ti cercavo là, mentre tu stavi già dentro di
me!”
Nel percorso spirituale che abbiamo tracciato
sembra dunque che il momento della fede, vale a dire il momento in cui l’uomo
trasferisce i paradossi dell’infinito nell’interiorità soggettiva dove ritrova
Dio nella forma di un sentimento, rappresenti quasi una porta che si sia aperta
sotto la spinta di una ragione che premeva alla ricerca di una risoluzione dei
suoi conflitti. Questa pressione infine avrebbe generato una forma di coscienza
completamente nuova, una coscienza che è in grado di portare dentro di sé la
presenza di Dio, conservandola anche nei secoli futuri.
La figura emblematica - il
modello, l’icona - dove questi due
momenti, il finito e l’infinito, trovano una perfetta sintesi è rappresentata
dalla figura del Cristo – Cristo come persona vivente, ossia come soggetto
- che rappresenta il momento più alto di una sintesi tra il concetto del
finito, per cui Cristo è uomo (quindi condannato a morire, perché solo nella
morte si manifesta la finitezza dell’umano) e il concetto dell’infinito
rappresentato dalla sua contemporanea essenza semplice e divina. E’ dunque la
figura di Cristo a rappresentare il nuovo punto di incontro di un antico
paradosso.
E qui nasce per così dire il
cristianesimo della ragione, per cui vediamo che la fede – che secondo la
nostra descrizione quasi nasceva dalla pressione della ragione volta a superare
i suoi confini – fa a sua volta da traino alla ragione che ora dirige tutti i
suoi sforzi a rappresentare e a spiegare gli oggetti della fede: le caratteristiche
essenziali di Dio, nella sua semplicità e bontà in rapporto alla complessità e
al male presente nel mondo, e il mistero della Trinità che abbraccia anche il
paradosso della duplice natura di Cristo.
I vari tentativi di affrontare questo paradosso e di semplificare i
termini in gioco hanno dato poi origine a quella serie di eresie che
caratterizzano i primi secoli della civiltà cristiana. Però dobbiamo notare
anche un particolare importante e cioè che queste eresie si sviluppano in
ambienti culturali periferici dove non esisteva una tradizione e la
disponibilità di strumenti logici e filosofici sufficientemente elaborati per
misurarsi con un problema così complesso; e quindi si tendeva alla
semplificazione. Viceversa noi riscontriamo in pensatori come Agostino, e
soprattutto in Boezio, discepolo della Scuola di Atene, che aveva studiato a
fondo Platone, i matematici, la teoria della musica e la logica aristotelica,
anche una superiore capacità di
produrre argomenti e soluzioni razionali coerenti con l’ortodossia.
A partire da Boezio, e almeno fino
alle soglie del XII secolo, fede e ragione riescono a stabilire un legame molto
solido. Teologia e filosofia si confondono. Poi, con i francescani, nel tardo
Medioevo – e in particolare con Giovanni Duns Scoto e Guglielmo da Ockham, le
due sfere incominciarono via via a separarsi. Alla fede e alla ragione vengono riassegnati
ambiti distinti e fonti diverse di alimentazione per cui non ritroveremo più
quel forte compatibilismo riscontrabile in Boezio o in Tommaso D’Aquino.
Ciò stimolerà, nei secoli
successivi e fino ad oggi la ricerca di nuovi sistemi di interazione, con
vicende alterne, dove vedremo fede e ragione a volte negarsi a vicenda, a volte
accentuare i loro ambiti di incompatibilità, ma anche ritrovare una sintesi su
piani assolutamente nuovi. In generale, al di là delle alterne vicende generate
dalla interazione tra le due sfere, noi vediamo prevalere una tendenza ad
attribuire alla fede e alla ragione distinte radici e funzioni, però entrambe
indispensabili e complementari per la costruzione del nostro universo cognitivo
e morale.
In genere possiamo dire che tra le
due posizioni estreme - quella del credo
quia absurdum dei fideisti e quella dei positivisti che sostengono
viceversa che tutto ciò che non corrisponde agli standard di coerenza logica e
di verificabilità, debba essere considerato “privo di senso” - si va alla
ricerca di una nuova visione del concetto di “senso” che comprenda una sfera
motivazionale più vasta, caratterizzata anche
da norme, principi, credenze che, pur non costituendo materiale soggetto alle
regole di una analisi razionale - pur non fornendo nessuna informazione sul
mondo, pur sfuggendo alla dicotomia vero/falso - rivestono un significato strutturale, in quanto
procurano al credente motivazioni morali e comportamentali, nonché una solida
piattaforma formativa per la costruzione di una coscienza e un indirizzo per la
vita.
* Dagli atti del Convegno "Severino Boezio e Flavio Cassiodoro: eredità classica e cultura cristiana" svoltosi con grande successo di pubblico a Pavia lo scorso 29 settembre 2017.
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