mercoledì 6 febbraio 2019

Cicco Simonetta: un cammino lungo milleduecento chilometri



Era il 30 ottobre del 1480, quando sentii la possente chiave infilarsi nella toppa della serratura della stanza dove ero stato rinchiuso come un animale. Da un anno ero prigioniero! Nel nefasto mese di settembre dell’Anno del Signore del 1479, in poche giorni mi ritrovai dagli scanni del potere nella polvere. Erano le otto del mattino, quando quattro guardie armate mi prelevarono e mi condussero al patibolo.
“Indossate la tunica di lino e il cappuccio, messere Simonetta. Il percorso vi attende. La folla è già schierata ed è impaziente. Potete espiare ancora i vostri peccati recandovi ai due tabernacoli che troverete lungo la via” mi disse colui che guidava il drappello. (Voce maschile fuori campo)
Il quel momento capii perché mia madre, sessant’anni prima- avevo dieci anni allora e una curiosità inappagabile- mi aveva detto: “La seconda parte del sogno, piccolo mio, te la rivelerò quando supererai la metà di tua vita”. (Voce di donna fuori campo)
Allora gioii nel sentire le sue parole con le quali mi raccontava il sogno e mi disvelava nuovi orizzonti: “Eri un aquilotto, figlio, e volavi in alto, sempre più in alto, eludendo la traiettoria delle pietre e delle frecce che ti sferravano in abbondanza anche gli amici, mentre lasciavi per sempre il tuo nido per andare verso nuovi lidi, dove avresti conquistato il nuovo mondo fatto di commerci, viaggi e grandi opere.” (Voce di donna fuori campo)
Nel 1418 Francesco Sforza scese a Rossano Calabro per sposare la baronessa Polissena Ruffo di Calabria. Fu allora che i miei familiari conobbero il grande condottiero ed entrarono nelle sue grazie.
I miei zii dicono che non ero eccelso negli studi. Sì, non ero un secchione, è vero, perché è questo che si intende con l’aggettivo eccelso. E sapete perché? Perché apprendevo facilmente e non avevo bisogno di ripetere, ripetere, ripetere come fanno i secchioni. Mi bastava sentire le spiegazioni e il mio lavoro era quasi fatto.
Ero poco più che ventenne e stavo per laurearmi in diritto civile e canonico, quando zio Angelo mi portò a Milano con sé per introdurmi alla corte degli Sforza, dove ebbi la possibilità di fare apprendistato e prepararmi per una grande carriera come segretario di governo. L’intuito non mi difettava di certo, né il senso pratico e la voglia di farmi largo, anche a colpi di gomito. Inoltre, avevo il dono dell’opportunismo e della duttilità mentale.  Doti che non tardarono ad essere notate dal mio signore.
“Inizierai dal basso, figlio mio amato, ma con l’intelligenza che ti distingue conquisterai il cuore e la mente del tuo signore. Sii a lui fedele, sempre”, mi disse alla fine del racconto del sogno mia madre. (Voce di donna fuori campo)    
Le mie conoscenze del latino e del greco erano buone, quelle del diritto e delle materie amministrative eccelse. Avevo capito, però, che se volevo arrivare in alto dovevo conoscere altre lingue europee. E allora mi misi a studiare francese, tedesco, spagnolo e persino l’ebraico, indispensabile per interagire con i grandi mercanti ebrei di allora che dominavano l’economia europea.
Con quel bagaglio, iniziai a volare in alto, come quell’aquilotto che era apparso in sogno a mia madre.
Nel 1445 ero già segretario maggiore, così il mio peso a corte crebbe sempre di più, suscitando anche tante invidie. Gli anni che vanno dal 1445 al 1450 non furono per niente tranquilli per il mio signore.
Alfonso V, il nuovo re di Napoli, il pontefice e il duca visconteo si allearono per sconfiggere Francesco, che si vide costretto a cedere molte roccaforti nell’Italia centrale e meridionale, ma non perse la guerra, e in breve tempo si rimise in sella.
“Perderete tanto, figlio, ma guadagnerete di più, perché perdere a volte è guadagnare” mi aveva detto mia madre prima di lasciarmi andare al seguito dello zio Angelo, che mi attendeva in carrozza pensieroso. (Voce di donna fuori campo)
“Perderete, madre…!” esclamai. Non rispose. Si girò e si asciugò le lacrime. È il ricordo più nitido che conservo di lei. Le sue lacrime furono come stizze di luce in una caverna per me.
Nel 1450 fui mandato a presiedere la piazzaforte di Lodi, e ancora una volta mi distinsi portando a termine nel migliore dei modi l’incarico. Nello stesso anno, Francesco entrò a Milano acclamato come condottiero.
Da questo momento la mia carriera subì un’altra accelerazione fino a che diventai l’alter ego del condottiero. Su suo incarico, ma con la mia intelligenza, organizzai la pubblica amministrazione, favorii la costruzione di palazzi, chiese, canali, migliorai l’agricoltura e presi in pugno la politica degli Sforza, ma… Nuvole si stavano addensando all’orizzonte.

(Cambiando registro linguistico)   
Tutto iniziò a cambiare quando di me dissero che ero un accentratore, un doppiogiochista, un ipocrita. Divenni per molti una persona subdola, cinica, falsa e persino malvagia. Io me ne infischiavo, perché ritenevo che c’era tanta esagerazione nei loro giudizi e perché potevo contare sulla protezione del mio signore.
“Figliolo, sai qual è il peggior nemico di noi tutti”, mi disse una volta mia madre, rispondendo a una mia domanda giovanile, “l’invidia! Attento, perché per invidia il fratello uccide il fratello, il padre divora il figlio e l’amico ti consegna al boia. L’uomo fa fatica a riconoscere i propri privilegi, ma è accecato da quelli degli altri, e per questo si lascia spesso guidare dall’invidia.” (Voce di donna fuori campo)
Fino agli inizi del 1479 il mio potere aumentò sempre di più. Accumulai ricchezza, comperai immobili e proprietà, cercai di imparentare il mio casato con quello degli Sforza e delle altre famiglie che contavano, favorendo matrimoni di convenienza e tessendo una fitta rete di interessi. Io stesso sposai Elisabetta Visconti.
Era la sera di Santo Stefano del 1476. Milano era ammantata da uno spolverio di neve e il freddo era pungente. Nelle strade erano stati accesi dei fuochi. Il mio signore, Galeazzo Maria, stava entrando nella basilica di Santo Stefano Maggiore, quando tre sicari al soldo del re di Francia lo pugnalarono mortalmente. Da allora la lotta per prenderne il ducato si fece più aspra.
Quello stesso anno, insieme a Gian Galeazzo, suo figlio di circa nove anni, estromettemmo la di lui consorte, Bianca Maria Visconti, dalla legittima successione al marito.
Sì, l’ammetto, i costanti pericoli di quegli anni mi fecero diventare quasi dispotico. Dubitavo di tutti. Temevo che anche i muri mi spiassero. La situazione precipitò rapidamente alla fine del 1478. L’anno seguente fui arrestato e rinchiuso nel carcere di Pavia. Il mio destino era segnato.
Seconda parte
(Il passaggio alla seconda parte è scandito da un’esibizione di R. Nobile. Lo stato di prigioniero sarà testimoniato da una specie di saio)
Pavia, 30 ottobre 1480, ore 8 del mattino.
Sento ancora il freddo nelle mie ossa. Ottobre volgeva al termine e una nebbia fitta oscurava ogni cosa. Pavia era illividita e umida. I cani latravano e i buoi mugghiavano. Due giorni prima avevo fatto testamento perché presagivo la mia fine.
La notte del 29 fu agitata. Un dormiveglia continuo, e sogni, e incubi, e volti…  Verso l’una di notte feci un sogno che mi fece sudare freddo. Nel sogno, vidi mia madre che si aggirava tra la folla. In mano teneva un nodo scorsoio. Diceva che cercava uno sconosciuto cui doveva rivelare la seconda parte di un sogno. La chiamai dicendo che ero io la persona cui doveva narrare la seconda parte del sogno, ma lei non mi sentì e si dileguò.
La mattina presto venne nella mia cella un prete per i sacramenti.
“Sono qui per offrirvi il conforto della fede, messere Simonetta. Rimettete i vostri peccati all’Altissimo affinché possa accogliervi fra le sue braccia misericordiose” mi disse. (Voce maschile fuori campo)
Lo guardai di tralice. Veniva ad “offrirmi il conforto della fede” mentre, fra qualche ora, mi avrebbero staccato la testa dal corpo. Avrei voluto mandarlo via a malo modo, urlare tutta la mia rabbia. Mi feci il segno della croce e rimasi in silenzio. Verso le otto del mattino iniziai a sentire i passi felpati della morte, poi la porta si aprì ed io fui prelevato. Giunsi al patibolo fra due ali di folla che acclamavano il boia, fra esse c’erano molte persone che in più di un’occasione mi avevano applaudito e riverito.
In quel momento mi rimproverai per il bene che avevo fatto loro, giacché non ero disposto ad accettare l’ingratitudine di cui ero fatto oggetto in quel momento.
La sola cosa che mi dava conforto mentre procedevo a passi lenti verso il patibolo era andare indietro con la memoria. Allora pensai a mia madre, ai miei compagni di gioco, ai vicoli pietrosi del mio paese, ai pomeriggi estivi trascorsi all’ombra della torre del castello Barracco della mia amata Caccuri, oppure a esplorare le numerose grotte del territorio.
Contrariamente alla monotona pianura lombarda, le estati sull’altipiano della Pre Sila erano fresche e ottobre odorava di melagrana, olive, castagne e corbezzoli. Ho ancora nelle mie orecchie il canto che allietava le giornate e stemperava la durezza del lavoro delle raccoglitrici di olive che, con la testa fino ai piedi, raccoglievano le olive una ad una. Mi rimproverai il fatto di esserci ritornato poco, perché sempre preso da troppi impegni. Mi chiesi se avessi potuto fare qualcosa per contribuire a fare grande anche quell’ombelico di mondo così remoto, adagiato all’ombra della torre. Mi sentivo come quel figlio che smarrisce la via di casa.
“Dio, Dio…! Ne era valsa la pena lasciare la quieta del paese e degli studi per la frenesia del successo? Mi chiesi. “E che cos’è il successo, se alla fine ti ritrovi con un pugno di mosche in mano e tutti ti girano le spalle?” Mentre pensavo a queste cose il boia lasciò cadere la mannaia che mi staccò la testa dal corpo. Era finita tristemente la mia avventura di primo migrante calabrese in terra di Lombardia,
Regia e scenografia: Esecuzione di tre ballate di R. Nobile (una prima della pièce, una durante il passaggio alla seconda parte. L’ultima alla fine della) L’attore che personifica Simonetta potrebbe avere solo il cappello nella prima parte. Nella seconda potrebbe indossare un saio.)
                                                                     Cicco Simonetta

                                                    Prof. Cataldo Russo - Crucoli (KR)

mercoledì 5 dicembre 2018

CICCO SIMONETTA - Il Calabrese della grande Milano


La Regione Calabria ha affidato alla Associazione CalabroLombarda l'incarico di rievocare la figura di Cicco Simonetta, nato a Caccuri, in Calabria, vissuto per 50 anni a Milano con la carica di Cancelliere del Ducato degli Sforza e deportato presso il Castello Visconteo di Pavia, dove venne giustiziato per ordine di Ludovico il Moro, ma lasciando anche a Pavia tracce della sua meritoria amministrazione, come rievocato dalle tantissime pubblicazioni dell'epoca.

 Salvatore Tolomeo, Presidente dell' Associazione CalabroLombarda

martedì 13 novembre 2018

Città del Sole a sostegno del"Modello Riace" per i migranti


A Pavia presso il Centro del volontariato si è svolta un’azione di solidarietà per sostenere il "Modello Riace". Erano presenti 20 o più Associazioni di cultura religiosa, civile. laica, tra cui anche Città del Sole. Pubblichiamo di seguito una interessante riflessione scritta a più mani da alcuni sostenitori di Città del Sole. 

La storia di Mimmo Lucano, Sindaco di Riace, è Storia di migranti, accoglienza e integrazione: un modello divenuto famoso in tutto il mondo, dalla fine degli anni ’90, come Modello Riace e che è valso al sindaco diversi riconoscimenti per l’attività svolta e per aver messo in pratica quei valori dell’ospitalità tipici delle genti del Sud. Ma anche per aver restituito dignità al paese stesso, dal punto di vista sociale, economico e culturale. Riace, infatti, era un paese spopolato, le attività commerciali erano scarse, le case erano vuote, così come le scuole e il lavoro era solo un’utopia. Il piccolo comune calabrese di Riace ha nel corso del tempo rivelato il volto buono dell’accoglienza: paese del sud, a lungo luogo di partenze, è diventato luogo di arrivi, aprendo le porte a migranti giunti sulle nostre coste alla ricerca di una dimensione e di una terra, in fuga dalla guerra e spinti da un forte desiderio di libertà. I primi profughi curdi e iracheni nel luglio del 1998 grazie anche alla lungimiranza del vescovo Bregantini, vennero ospitati nella Casa del Pellegrino, con l’intento di dare i conforti di prima necessità. Si incontrano però due problematiche, una universale, la lotta per la libertà, e una locale, la lotta per la sopravvivenza. La capacità di Mimmo Lucano di vedere quello sbarco non solo con spirito umanitario, ma come possibilità e risorsa per lo stesso paese ha modificato in meglio la vita non solo di un borgo e delle famiglie che vi abitavano. Infatti fu sua l’idea di operare per dare un vantaggio ad entrambe le parti: un tetto e un’occupazione ai profughi che chiedevano accoglienza nella dignità; al paese dimenticato l’avvio di un riscatto sociale, ripopolandolo e offrendogli una possibilità di crescita. Da quell’idea nacque anche l’Associazione Città Futura – Pino Puglisi.

Il sistema accoglienza di Riace è diventato un vero progetto civile dal 2001, quando Mimmo Lucano, sindaco con una lista civica, basando i suoi interventi su tre principi: accoglienza, integrazione, lavoro, ha trasformato un paese di 900 abitanti, in un vivace laboratorio sociale di oltre 2000 persone, metà delle quali sono stranieri. Con l’aiuto dei migranti, sono risorti laboratori artigianali di ceramica, tessitura o piccole ditte edili. Altri migranti lavorano come interpreti, mediatori culturali, giardinieri, allevatori e alcuni sono occupati nella pulizia delle strade, nella cura del verde pubblico, o anche tenendo pulite le spiagge di Riace Marina, le stesse che hanno visto il recupero dei famosi Bronzi.  La crescita del paese, la vita nelle case e per le strade, l’offerta di servizi pubblici per la comunità sono il segno evidente di un modello che ha funzionato, e che funziona. Ma l’aspetto vincente del “modello Riace” è legato a due concetti: i bonus e le borse lavoro. I bonus sono una specie di microcredito, una moneta locale che consente ai migranti di acquistare merci e servizi tra gli esercenti del paese in attesa dei contributi economici statali che spesso arrivano tardivamente. Sappiamo come alcune cooperative hanno utilizzato i famosi 35,00 € al giorno destinati alla gestione dei migranti. Lucano ha ottenuto gli stessi contributi, ma ha investito quei soldi per garantire occupazione e integrazione. Non ci sono giunte da Riace immagini di migranti stipati in capannoni fatiscenti, di brandine, di locali senza servizi igienici, di giovani costretti a bighellonare; abbiamo visto, invece, immagini di case vere, aperte per ospitare i rifugiati, quasi da subito, quando il Sindaco ebbe l’idea di chiedere agli emigranti in giro per il mondo di poter utilizzare le loro case abbandonate di Riace Superiore, e l’adesione fu immediata e commovente.

Le borse lavoro hanno permesso ai richiedenti asilo di ottenere un lavoro presso le botteghe artigianali del paese, di contribuire allo sviluppo socio-economico della zona e di rafforzare la coesione sociale grazie ai quotidiani rapporti tra le persone. Ecco perché il modello Riace è arrivato all’attenzione mondiale: nel 2015 è stato premiato a Berna dalla Fondazione per la Libertà e i diritti umani e nel 2016 è stato inserito al quarantesimo posto tra le persone più influenti del mondo, dalla rivista Fortune. Insomma, l’umile Sindaco della piccola Riace si è fatto conoscere. Ma la fama porta glorie e sventure, stando agli sviluppi di cui la cronaca ci aggiorna. Ribadiamo ampia solidarietà e sostegno al Sindaco Mimmo Lucano, certi che il Modello Riace sopravviverà, perché l’umanità è più forte delle carte bollate e soprattutto perché il Modello Riace può essere inteso come alternativa ai traffici della ‘ndrangheta: il riscatto del sud si può costruire proprio a partire dall’accoglienza.



venerdì 2 novembre 2018

RINVIO DEL CONVEGNO DEL 9 NOVEMBRE

SI INFORMA CHE IL CONVEGNO DEL 9 NOVEMBRE h.16,30 PRESSO IL PALAZZO BROLETTO – PIAZZA DELLA VITTORIA: “ATTUALITA’ DEL PENSIERO PROFETICO DI GIOACCHINO DA FIORE”
         PER IMPROVVISA INDISPONIBILITA’ DEL RELATORE PRINCIPALE
       E’ STATO RINVIATO A DATA DA DESTINARSI
(IL DIRETTIVO “CITTA’ DEL SOLE”)