MASSIMO RADAELLI
Ricordo di Giordano Bruno
Oggi ricorre l’anniversario dell’esecuzione di
Giordano Bruno, arso vivo a Campo dei Fiori a Roma il 17 febbraio del 1600 per
ordine dell’Inquisizione Romana. Al suo grande ingegno e grandissimo coraggio
voglio offrire questo fiore, ricordando un elemento non messo in luce dagli
studiosi di Bruno, pure numerosissimi in ogni parte del mondo: la sua
discendenza dalla dottrina pitagorica, rimasta viva nel Sud Italia fino a lui e
fino a noi.
Già a Salerno era nata nel Medioevo la famosa
Scuola Medica Salernitana che, a mio giudizio, altro non è che una summa della
medicina pitagorica con qualche aggiunta, e sarebbe il caso che di questa
discendenza se ne occupassero i tanti professori di storia della medicina delle
università italiane.
San Francesco di Paola, poi, riprese il
vegetarismo osservato da Pitagora, rinforzandolo con l’astinenza da uova e
latte, che oggi è chiamato veganismo perché verrebbe dalla stella Vega, il che
mi sembra vero nel senso che la Calabria è un mondo tanto diverso e lontano
quanto una stella…
Anche Campanella scrisse la sua prima opera,
purtroppo persa, su Pitagora, e sappiamo che la appese come omaggio al
catafalco di Telesio morto a Cosenza.
Ma torniamo a Bruno e alla sua interpretazione
della Bibbia, una stranezza che la Santa Inquisizione non riuscì nemmeno a
capire e non contestò a Bruno, mentre invece era, secondo me, la sua più grave
eresia. Difatti Bruno scrisse, a proposito del primo assassinio fratricida
della storia, la seguente terribile frase:
Ben fece Caino a uccidere quel massacrator di
animali Abele.
Bruno aveva semplicemente ripreso la dottrina
base sull’origine della violenza predicata da Pitagora:
Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un
uomo.
Il primo a uccidere non fu Caino, che offriva a
Dio i frutti della terra essendo contadino, ma Abele, che offriva a Dio padre
padrone il sacrificio di poveri animali. Caino semplicemente imitò Abele.
Un’ultima considerazione è che Bruno, suo nome
di famiglia, altro non è che il nome di Bruno di Colonia, che in Calabria era
venuto a stabilirsi osservando l’astinenza perpetua dalle carni, regola che i
suoi monaci certosini ancora oggi osservano.
Mi piace ricordare anche la napoletanità di
Bruno, che mi richiama Totò e le sue battute. Quando, per convincerlo ad
abiurare, gli ricordavano che sarebbe morto bruciato e sarebbe finito
all’infero, Bruno disse che con le fiamme del rogo la sua anima sarebbe salita
in cielo come il fumo dell’arrosto…
Il suo rogo arse a Roma il 17 febbraio, giorno
nefasto per i pitagorici perché considerato OSTACOLO. E’ per questo motivo che
ancora oggi nel Meridione il 17 è molto temuto. Darò a parte la spiegazione di
questo fenomeno. La cosa buffa fu però che Bruno si portò nella tomba -faccio
per dire visto che le sue ceneri furono buttate nel Tevere- San Roberto
Bellarmino che aveva firmato la sua condanna e quella di Galileo come
presidente dell’Inquisizione Romana. Difatti, il Bellarmino morì il 17
settembre 1621, volle essere sepolto nel sarcofago che era stato di
Sant’Ignazio e alla fine fu proclamato santo, in buona compagnia di San
Vincenzo Ferreri, anche lui grande inquisitore…
Mi vien di pensare che giustamente c’è il giorno
del ricordo delle stragi di ebrei, zingari e altre etnie, ma non c’è nessuna
giornata di commemorazione per le innumerevoli vittime dell’Inquisizione. Spero
che qualcuno, illuminato dalle fiamme del rogo di Giordano Bruno, prenda una
iniziativa in merito. La sua statua di Campo dei Fiori stava per essere rimossa
per volere di Pio XI, condizione da lui posta per la firma del concordato con
Mussolini, ma ci fu una levata di scudi generale che nemmeno il Duce poté
sottovalutare. Datti da fare, caro
Giordano, per ricordare e onorare le vittime
dell’Inquisizione!
Salvatore Mongiardo, 17 febbraio 2016